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 2019  giugno 30 Domenica calendario

Lunga intervista a Renato Zero

Renato sorride. Zero scalpita. Renato riflette, mangia, niente vino (“c’è un tour da preparare”). Zero in tour “ci andrebbe pure domani”. Renato accarezza Zero, lieve, senza trucco per lui, per anni gli ha tolto le luci, mentre adesso “è giunto il momento di restituirgli lo spazio che merita”. Vuol dire un disco di inediti in uscita il 30 settembre (compleanno sia di Renato sia di Zero) e una tournée già da sold out malgrado la distanza del debutto (1° novembre) e il periodo non proprio idilliaco per i live (Ligabue ne è testimone).
Momento di passaggio. 
Io e Zero siamo figli dello stesso pensiero; però lui è molto rumoroso, è eccitato, desideroso di apparire, di divertirsi e divertire, di mostrarsi nella sua sfrontatezza, cerca attenzione, desidera l’abbraccio.
Mentre Renato…
È sempre stato il romanticone, con un’educazione cattolica forse influenzata dalle suore; si è offerto con parsimonia, senza troppi clamori.
Insieme?
Si sono equilibrati e hanno trovato un compromesso ragionevole per condividere un’esistenza; però da un certo punto in poi Renato ha preso il sopravvento, Zero è dovuto stare zitto, sottostare all’esigenza strumentale, armonica e melodica di Renato che gradiva una certa linea e un look meno trasgressivo.
Fino a quando…
Anche Renato si è reso conto di aver un pochino esagerato nello sbracciarsi, allora ha meditato e ha pensato che questo Zero è ora che torni a respirare e ha deciso che questo disco doveva essere la sua rivincita, anche con le sue trasgressioni.
Il video di “Mai più da soli” è girato a Londra. 
Ci ha fermato la sicurezza.
Cos’ha combinato?
Volevano 100.000 pounds perché giravamo dentro i giardini della Regina senza permesso. Quando hanno avvicinato i ragazzi della troupe, alle obiezioni hanno risposto: ‘È un filmato privato’. E loro: ‘Con questa attrezzatura?’. ‘Ma noi ci trattiamo bene’. Abbiamo pure vestito Peter Pan da Zero.
Insomma, disco e tournée trasgressivi.
È l’aspetto classico di un atteggiamento che non può più essere tacitato.
Già i manifesti lo sono…
Non c’è dietro niente di studiato, ho solo detto ‘a questo Zero gli devo far fare una passeggiata all’aria aperta’. Ma senza che quegli ammennicoli di un tempo diventassero consunzione.
Quindi?
Renato è uscito ai tempi di Spalle al muro, e Zero, dalla quarantena, si è reso conto che una certa moderazione fa bene, soprattutto adesso che si spara molto nell’aria; soprattutto oggi che c’è voglia di stupire a prescindere, con eccessi: più parolacce dici e più ritieni di aver vinto.
Zero scriverebbe ancora Sbattiamoci, Triangolo, Baratto o Fermo posta?
Anni dopo è uscita Nuda proprietà, però uno deve anche mentalmente sedersi e porre delle questioni: c’è un’età per certe cose, e un’età per altre. Se uno ha ragionevolezza e coscienza, si sviluppa un processo evolutivo che non permette più di scrivere Sbattiamoci, ma di utilizzare la medesima ironia per contesti più seri e intoccabili.
Per cui?
La mia ironia ha ancora vent’anni, ma va inquadrata nella realtà odierna: il ventenne di oggi non è quello che ascoltava Sbattiamoci.
Con Spalle al muro è ripartita la sua carriera: nel 1990 aveva annunciato il ritiro. 
Ero molto incazzato, e lo sono tuttora per via di Fonopoli: 16 anni impiegati, spesi per il progetto. Mi sono spezzato per ottenere dei sì, eppure è finita così, nel nulla, nonostante promesse e presunte attenzioni dei politici e degli imprenditori.
E poi?
Ho capito che per punire gli altri avrei punito me stesso, e non lo meritavo.
Il suo contributo, oggi.
Deve essere trasparente, ridente e un po’ rassicurante.
Colleghi alle soglie dei 70 sono andati in pensione.
Non riesco a immaginarmi senza pianoforte, senza scrivere qualcosa.
Impensabile.
E poi nessun uomo va in pensione, può solo decidere di aver bisogno di una vacanza più lunga; e se uno si convince di essere da pensione, ha già la morte sull’uscio di casa. Così è accaduto a mio padre.
Si esce dal mondo.
Se un attore termina la propria carriera, chiude il sipario, deve cambiare palco e trasmettere la propria esperienza ai giovani. Eppure questo Paese non fa bene il proprio lavoro: all’estero, per non perdere una ricchezza culturale, è il governo a instradare gli artisti verso l’insegnamento; da noi li vediamo sparire (ci pensa). È morto Carlo Giuffré ed eravamo quattro gatti.
Senza memoria.
La gente ogni tanto va sollecitata, anche per questo ogni tanto le radio dovrebbero passare i vecchi successi italiani: il confronto aiuta.
Lei non ama i selfie, non aiutano “la memoria”.
Oggi è tutto pronto, tutto già scritto, il passato di queste nuove generazioni si materializza da solo, e la storia di noi è diventata un lusso, perché non c’è più quella vivacità di trenta, quarant’anni fa.
Quindi quando si avvicina un fan…
Gli spiego che non amo lo strumento, preferisco un abbraccio, una stretta di mano, due chiacchiere; non amo essere crocifisso, avere subito davanti alla faccia la ghigliottina.
Un trofeo.
Non è l’artista a parlare, ma la persona; poi vediamo come vengono trattati questi scatti, con un uso talmente variegato che diventa anche un po’ depravato; e sia ben chiaro: è minore l’impegno di un selfie rispetto all’autografo o due chiacchiere (scoppia a ridere). Tra un po’ i grandi produttori di cellulari mi manderanno una diffida (Squilla il cellulare). Scusate, è Lucy (Morante).
La sua ex fidanzata. 
La conosco da quando avevo 23 anni ed era identica alla sorella di un amico, morta giovane: la somiglianza deve aver favorito il rapporto. Da allora siamo cresciuti insieme, pure in tournée.
La seguiva?
Certo. Una volta, verso la fine degli anni 70, ero in tour, dormivamo nella stessa stanza d’albergo, quando alle cinque del mattino bussano alla porta. ‘Chi è?’. ‘Polizia. Dobbiamo entrare’. ‘Va bene’. E apriamo. Con modalità frettolose, rovistano dappertutto: era scappata una ragazzina di 16 anni e pensavano l’avessimo nascosta. Quei tempi erano così, strani, imprevedibili.
Fidanzati per quanto?
Mai e mai lasciati, e lo consiglio a tanti, perché non comporta una serie di rotture: godiamo della par condicio, ognuno ha le proprie ali.
Mai persi di vista.
Lei gode delle chiavi di casa e questo è un segnale di costanza; quando i rapporti sono troppo appiccicaticci producono stanchezza e una certa noia, o almeno credo; in realtà non ho mai provato a infilarmi le pantofole e una vestaglia, con accanto una opportunità di sentirmi sposato.
Però…
Credo sia indole, per questo non mi sono mai preoccupato più di tanto, sono sposato con 60 milioni di italiani, ai quali offro i miei servigi da quando sono nato.
Da sempre.
Come dice qualcuno: si nasce predestinati.
Ha mai scritto qualcosa pensando a Lucy?
Io no, ma ci ha pensato Ivano Fossati quando l’ha menzionata in Traslocando (“Lucy la fredda stava zitta seduta sulle scale e i ragazzi del trasloco per fare in fretta la trattavano male”).
In un’intercettazione del 2004, l’ex andreottiano Vito Bonsignore la vuole in un concerto elettorale. Ma lei si è rifiutato.
Davvero? Non lo sapevo. Comunque di inviti ne ho ricevuti parecchi, ma un artista, prima di preoccuparsi della coscienza politica del pubblico, dovrebbe pensare alla coscienza umana e sociale, magari così uno va al seggio più consapevole.
Però ci hanno provato in tanti.
Tanti, e non ho mai ceduto.
Candidature offerte?
Anche, e sono stupito di come si possa prendere un soggetto qualunque, magari un avvocato, un commercialista o un palazzinaro, e offrirgli o consegnargli le chiavi del Paese. Ci vuole gente preparata. E mi astengo dallo stringere la mano a chi si dedica alla politica solo per mestiere.
Anni fa ha indicato in Franco Califano un maestro di vita.
La sua maturità era tatuata sul corpo, uno che si è conquistato sul campo il tempo, la misura e la credibilità. E con una certa determinazione.
Molto differente da lei.
Non importa, la strada può essere diversa, magari uno ha preso una mulattiera, l’altro una via più larga, ma l’importante è arrivare al mare.
Quale era la strada di Califano?
La mulattiera, più irta, brulla, meno ospitale; io pure, ma avevo addosso dei paracadute, ero più coccolato dalla famiglia. Franco era solo. Con un padre molto distante e un fratello e un nipote morti a poca distanza e per la stessa malattia. Lui ha veramente sofferto, mai un dono dalla vita, si è conquistato tutto.
Ha dichiarato che la differenza tra lei, Mia Martini, Rino Gaetano e Gabriella Ferri è “il senso delle proporzioni”.
In realtà volevo spiegare che le reazioni di questi amici erano veramente da protagonisti, mentre le mie sono la somma dell’educazione di tutto il popolo che mi ha condiviso, a partire dalla famiglia e dagli amici.
Mentre la Ferri?
Era lo specchio di una Roma sciatta, disordinata, bella per questo, dove mancava autentico ottimismo; alla sofferenza non si dava quell’importanza tangibile. Io vivevo lo stesso disagio, la stessa incomprensione da parte degli altri, però era più ammortizzata, con una stabilità in dotazione.
Un senso dell’equilibrio. 
E l’amore che ho provato per Gabriella e Mimì era il desiderio di trasmettere loro il mio appoggio, la mia presenza, condividere un pezzetto di quell’equilibrio.
Rino Gaetano.
Ho un rammarico: non avevo capito la sua debolezza, non avevo intuito la sua solitudine.
Vi frequentavate?
Purtroppo non tanto, era un po’ chiuso, anche nelle amicizie; ma quando ci incontravamo c’era sintonia e sembrava allegro, spensierato, e dentro mi sentivo soddisfatto dell’impressione.
Eppure.
Anche le sue canzoni esprimevano il desiderio di cambiare, una forte ribellione, non imbevute di malessere. In realtà era malinconico.
Questo desiderio di abbracciare l’ha sempre sentito?
Ho da sempre convissuto con una decisa solitudine: nella Roma dell’epoca ero l’ultimo di quattro figli, il piccolo non era ancora nato, e allora era normale mandare i figli in collegio.
Anche lei?
Io no, ma le mie sorelle sì, perché mamma era infermiera e papà poliziotto, quindi restavo solo con mia nonna e frequentavo i parenti anziani.
Per cui…
La comitiva, il cortile, i ragazzini li ho iniziati ad assaporare in seconda battuta e in uno scenario desolante.
Desolante?
In quegli anni nel centro di Roma non vivevano bambini, o era difficile incontrarli. Solo anziani. Poi ho scoperto i bimbi della Montagnola (a quei tempi periferia, oggi no, ndr) che si dilettavano con la mazzafionda, lo schiaffo del soldato o altri giochi dell’epoca.
Lei felice.
Sì, ma pesavo tre etti, e questi ragazzini di borgata crescevano con una muscolatura pronta, forse dettata dalla rabbia di vivere.
Tre etti…
Non solo da un punto di vista fisico, pure sociale: mi guardavano con sospetto, anche a causa del mio abbigliamento da ragazzino del centro.
Adriano Panatta racconta che la prima volta che l’ha vista “sembrava uno sciroccato vestito da marziano, con stivali, tuta e mantello”.
(Si alza in piedi e annuisce, e ride). Ero io.
Così audace?
Loredana Bertè era con Adriano, appuntamento sotto il balcone del Duce in piazza Venezia. Adriano butta l’occhio verso di me, strabuzza gli occhi, si gira verso Loredana ed esclama: ‘Dimme che non è quello’.
Un artista romano che apprezza. 
Gigi Proietti: è uno dei romani più belli in assoluto. E lo conosco dalla fine degli anni 70, quando entrambi ci esibivamo nel tendone di piazza Mancini. Gigi otteneva begli incassi, io stavo crescendo.
Suo padre acquistava i i biglietti. 
Sempre, e quando i colleghi provavano a cercare degli omaggi, quegli stessi colleghi che fino a poco tempo prima ci avevano insultato, rispondeva: ‘Per chi? Per quello svergognato? Per quello di sesso dubbio? Un biglietto per vedere quella creatura così inquietante?’. Si ritraevano immediatamente.
Una sua conquista?
Aver vissuto così e nella vita ho pagato tutto, gli ‘scontrini’ sono sempre con me, ed è una bella soddisfazione, è come aver saldato qualche debito, se mai ci fossero stati. Sono appagato.
Cosa si domanda più spesso?
Cosa avrei fatto senza la musica.
Risposta?
Nessun medico né psicoanalista la prescriverebbe come rimedio per guarire noia, timidezza, malessere o altre frustrazioni. Ma quando ci si imbatte nella musica, un senso di leggerezza e di pace si fanno sentire. Eccome.
E…
Non sono ancora del tutto guarito. Sono ogni giorno che passa sempre di più ‘Zero il folle’. Per piacere non fatemi guarire.
Chiamarsi Zero per lei. 
È come essere eternamente pronto sul marciapiede della stazione per saltare sul primo treno. Non è mai importante in quale direzione, mentre è fondamentale il contenuto del bagaglio e lo slancio nell’affrontare il viaggio.
(Canta Renato Zero in “Naturalmente strano”: “Io sono strano, forse per questo più umano e già. Io sono strano, se vuoi vedere che effetto fa… sali sul treno…”).