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 2019  giugno 30 Domenica calendario

Rachele Mussolini

La piccola piazza, i portici e le quattro strade attorno alla Casa del fascio straripano di una folla in camicia nera, convenuta da ogni parte di Romagna per la visita ufficiale del duce. In divisa di caporale della milizia lui arriva di corsa tra ansimanti gerarchi, balza su un piedistallo coperto di rosso tra un agitarsi di bandiere, labari e gagliardetti, mentre tutti cantano Giovinezza. Poi è la volta dei Balilla e delle Piccole italiane che strillano: «Mussolini Mussolini / tu sei il padre di tutti i bambini / dell’Italia sei il nocchiero / della Patria il condottiero».
Intanto sul palco, mezzo affogata nel mare delle camicie nere, prende posto anche Rachele minuta e come frastornata da tanto chiasso. Indossa un lungo vestito bianco con grosse farfalle nere, ciuffi di capelli biondi le escono da una cuffia blu troppo larga che appena le lascia scoperti i bellissimi occhi, celesti come l’acqua chiara. Dalla prima fila delle giovani italiane, con un fiocco tricolore tagli i capelli, Ecco muoversi subito verso di lei una bimbetta di 7 anni che regge un enorme mazzo – anzi un enorme fascio – tricolore, rose bianche e rose rosse, tra il fitto verde delle foglie. Sospinta da Vanni Teodorani sale sul palco e si blocca, assieme alla banda che per errore ha appena intonato Sole che sorgi: per ordine del Podestà la bimba deve presentare il benvenuto. Resta invece ammutolita davanti a Mussolini, aggrappata alle sue rose. Teodorani le fa gli occhiacci, il Duce accenna a una carezza: ma lei, niente. «Per chi sono questi fiori, cara bambina?», chiede allora lui col suo vocione romagnolo. E, poiché la piccola non risponde, è Rachele a tenderle materna le braccia dicendo: «Ma sono io, naturalmente...».
Raccontato da Gianna Preda in una plaquette di ricordi (edita presso Sperling & Kupfer, l’anno della sua morte, 1981) questo aneddoto è deliziosamente rivelatore. In effetti, anche alla stessa Rachele – in famiglia gagliardissima matriarca ovvero arzdora, ma assai gelosa della propria vita privata – l’appellativo di «donna» suonò sempre un po’ ridicolo. Quale moglie di un collare della SS. Annunziata, e «cugina del re», però le toccava, e ad attribuirglielo fu lo stesso Mussolini che perentoriamente l’impose agli stessi familiari, come per esempio in questo telegramma (4 dicembre 1930) al fratello Arnaldo: «Potresti se lo desideri partire domani con donna Rachele che viene a Roma per salutare Edda (...) Abbraccioti. Benito. Fu un crisma di ufficialità che le rimase addosso esattamente sino al tardo pomeriggio di domenica 25 luglio 1943, quando la radio annunciò le dimissioni del «cavalier Benito Mussolini». Da allora (tranne che per i fedelissimi della RSI e del neofascismo post bellico) le subentrò l’appellativo di «moglie del duce», con l’inutile e ingenerosa sfumatura spregiativa che, pur molto attenuata dal passare degli anni, non doveva abbandonarla più.
In realtà «Chiletta» Guidi – nata l’11 aprile 1890 a Salto, 6 km da Predappio – fu, per sé e per gli altri, Rachele Mussolini solo tre volte nella propria vita: davanti a un funzionario del Comune di Milano per un matrimonio civile con Mussolini (16 dicembre 1915), davanti a un sacerdote di Treviglio per quello religioso (28 dicembre 1925) e infine, ma senza più accorgersene, quando morì.
Per il suo carattere, fermissimo e dominatore in famiglia, ma riservato verso l’esterno, di lei si parlò raramente durante il ventennio, poco durante la Rsi. Solo la curiosità rotocalchesca del secondo dopoguerra, da quando comincio il grottesco balletto attorno alla salma di Mussolini, a farne – suo malgrado – un personaggio, ma comunque con una notorietà bene inferiore, e più tarda, a quella che volontariamente e involontariamente, dal 1930 al 1945 era toccata alla figlia Edda.
Avrebbe potuto essere sorella – o sorellastra – di Benito. Sua madre Anna Lombardi, prima di sposare il fattore di una grossa tenuta, Agostino Guidi, era infatti fidanzata di Alessandro Mussolini, amico di Andrea Costa e noto come «sovversivo», che le aveva preferito la maestrina Rosa Maltoni. Chilettta crebbe badando a tacchini e maiali giù a fondovalle, dove s’era trasferita con la madre e le tre sorelle quando Agostino, perduto il posto, dovette rassegnarsi a coltivare un piccolo podere. Apprese da sé a leggere e scrivere, implorando la madre di farle frequentare le elementari. Conobbe il figlio del fabbro nella scuola di Dovia. Quando per la prima volta vi mise piede, al posto di Rosa Maltoni trovò come supplente il giovanissimo Benito, che allora studiava Forlimpopoli per diventare maestro, e che era a tutti noto come el matt. 
Con la morte di Agostino Guidi dovette interrompere gli studi alla seconda classe, perché la madre la trascinò assieme alle sorelle a Forlì, in cerca di lavoro. Finirono tutte a servizio. In rapida successione (3 lire al mese) Chiletta fu presso un ortolano, un maresciallo, un pollivendolo e infine (8 lire più vitto e alloggio) presso una famiglia altoborghese, i Chiedini. Con reciproca soddisfazione vi rimase 9 anni.
Finché, un bel giorno, fu colpita da quella che giudicò una serie di eccezionali coincidenze. Aveva saputo che el matt, testa calda e socialista, dopo essere stato in Svizzera e poi nelle galere di Romagna, se ne viveva proprio a Forlì e proprio nella trattoria fuori porta dove Alessandro Mussolini, rimasto vedovo, se era da poco sistemato proprio con Anna Guidi. Senza perdere tempo, in quell’osteria si sistemò anche lei, come sguattera.
Mussolini la riconobbe, valutandone il petto fiorente e i fianchi rotondi: «Accidenti, siete già una signorina» disse. E lei civettuola in dialetto: «E vo’, Benito, ac’ bel omazz ca si devantè...». Lusingato dal complimento, la aggredì pronto: «Posso darti del tu?». «Mo zert!», rispose Chiletta mentre lui le dava uno strizzone. La faccenda diventò presto seria, tanto che nella Autobiografia si legge: «Il 5 ottobre giunsi a Forlì e presi alloggio nella mia casa. Nelle settimane che seguirono dichiarai il mio amore alla Rachele, che mi corrispose. Nell’attesa di unirmi con lei la mandai tra il 1909 e il 1910 a San Martino, da sua sorella. Volevo toglierla dall’ambiente di quell’ osteria, tanto più che non c’era ormai più assoluto bisogno dell’opera di lei. Mio padre e sua madre erano decisamente contrari – ognuno per diverse ragioni – al nostro matrimonio e ci furono in quel torno di tempo episodi assai tempestosi... Il 17 gennaio del 1910 mi unii, senza vincoli ufficiali né civili né religiosi, con Rachele Guidi. Prendemmo un appartamento ammobiliato in via Merenda numero 1 e vi abbiamo passato la nostra breve luna di miele... Il primo settembre, alle 3 del mattino, la mia compagna partorì felicemente una bambina, alla quale ho posto nome Edda».
Il piacere di restare nell’ombra
Mussolini scriveva – e andava – per le spicce. Come ben si sa soprattutto in politica. Nel ottobre di quel 1910 balzato a cavallo del Partito Socialista forlivese, al Congresso Nazionale di Milano scrollò per il collo gli odiati riformisti; nell’estate 1911 invitò le donne (ma Rachele disse No) a stendersi sui binari dei treni militari per impedirne l’arrivo ai porti di imbarco verso la guerra di Libia; e l’8 luglio 1912, con lo strepitoso successo personale, si impose alla guida del partito durante il congresso di Reggio Emilia, affossando il riformismo turatiano specie quando – 30 novembre 1912 – agguantò la direzione dell’Avanti!. E intanto studiava, verso una posizione sempre più autonoma nell’ambito del socialismo per quella crisi provocata in lui – ha rilevato Renzo De Felice – dal sindacalismo rivoluzionario soreliano, soprattutto assimilato attraverso la Voce del suo amico Prezzolini.
In queste faccende Rachele non poteva certo seguirlo. Si limito a inseguirlo con Edda a Milano precipitandoglisi conto nella redazione dell’Avanti!, sino a sistemarsi tutti e tre nella loro prima casa in via Castelmorrone. Paga di stare accanto al suo Musslèn (sino al 1930 continua a chiamarlo così), sopportò. Lo sapeva benissimo, Chiletta, che il suo Benito andava spesso in te casen, in Fiori Chiari e in via San Pietro all’orto. Però era lei a contare, soprattutto come madre di Edda. E poi Benito, in fondo, le voleva bene: a punto da farle violente scenate di gelosia, e a chiuderla a chiave in casa.
Rachele sopporto anche «le donnacce» la Balabanoff, addirittura la Ida Dalser (che a Mussolini aveva dato un figlio) e della quale ebbe paura: si armò di una pistola a tamburo, temendo per la propria vita. Chi non tollerò fu Margherita Sarfatti, elegante e colta quanto lei era (senza saperlo) un po’ goffa e ignorantissima. Ma capì il pericolo, lottò.
L’influenza su di lui della Sarfatti (con una predisposizione che lo porterà in futuro a Cornelia Tanzi e a Magda Fontanges), a poco a poco spinse Rachele – dotata di un sicuro istinto, di un fiuto animalmente perspicace – ad azzardare qualche consiglio su faccende politiche. Lui, già allora, non l’ascoltava (mal gliene incorrerà in futuro). Si limitava a darle una pacca sul sedere, dicendole piuttosto di badare ai figli (a Edda si erano aggiunti Vittorio nel settembre del ’16 e Bruno nell’ottobre del ’18).
Ma almeno due volte – in quegli inizi di ascesa – le diede ragione. La prima fu quando, mentre leggeva un biglietto di D’Annunzio, lei disse: «Come puoi avere stima di lui, tu che hai sempre pagato al centesimo i tuoi creditori?». E Mussolini, sorridendo, le rispose che sì, il poeta era un emerito piantatore di chiodi, Ma che bisognava a perdonarlo ed aiutarlo (l’avrebbe fatto sin troppo, negli anni a venire). E la seconda volta quando, nel 1922 se ne tornò a casa con in meno un pezzetto dell’orecchio destro e con la camicia insanguinata. Si era battuto a duello con Treves e lei, col dente avvelenato per via della Sarfatti, gli urlo: «Ben meritate... E mi hai anche rovinato una camicia!». Di nuovo sorridendo disse: «Ben date, e ben ricevute», ma senza che lei capisse ch’era la perifrasi della nota frase di Giolitti contro i bastonati dagli squadristi.
Stava già pensando, Mussolini, come agguantare il potere.
Rachele, sbagliando (o forse no, chissà) lo sconsigliava: «Benito, finché sei direttore al giornale sei un padrone, fai e disfai come vuoi, lavori e ti diverti e guadagni bene. Lascia perdere il resto, a tel dis me...». La sera del 28 ottobre 1922 con un bel abito nero rosso fiamma e con Edda vestita in bianco, si sentiva tutta contenta: era lì, in un palco di prima fila col suo Benito al teatro Manzoni, per assistere al Cigno di Ferenc Molnar (ma ignora che la sera precedente, lui era su quelle stesse poltrone con la Sarfatti). È vero, la mattina del 27 alcuni capi quadra fascisti avevano continuato a telefonargli a casa per avere il permesso di «dare fuoco al baraccone». Ma lui era lì a teatro, della marcia su Roma si rifiutava di parlare, i rischi sembravano lontani Alle 12.30 del 29 ottobre, quando Benito le telefonò dal Popolo d’Italia che sarebbe partito per la capitale, per poco non cadde a terra tramortita. Rimase appoggiata alla parete dov’era il telefono. La sorella di Benito, Edvige, le chiese: «Cosa è successo?». E Rachele: «Questa poi! Musslèn è capo del governo, cla bella macia lè, quel fenomeno lì...».
Si compiacque ancora di più di restare nell’ombra (in realtà le sue salde radici contadine i suoi modi piccolo-borghesi furono assai utili a Mussolini per aumentare il consenso tra le «masse rurali» e i «ceti medi emergenti»). Continuava a essere gelosa, naturalmente, perché lui le aveva imposto di restarsene a Milano: «C’è l’educazione di Edda e di Vittorio, come possiamo cambiare scuola ai ragazzi?».
Ma nel 1925 – per il timore della solita Sarfatti – riuscì a farsi sposare davanti al prete, mettendo poi al mondo Romano nel 27 Annamaria nel 29. L’anno successivo si stabilì con tutta la famiglia nella capitale, a Villa Torlonia. E solo tiepidamente (d’istinto aveva ragione lei) accondiscese al fidanzamento, e alle nozze, della figlia con Galeazzo Ciano. Si dedicò del tutto alla famiglia, partecipando assai di rado alle cerimonie pubbliche. Né parlava di problemi politici seri con il Duce: Edda ne era la confidente, non lei.
Su come si vivesse nella casa della arzdora Rachele ci sono alcuni efficaci testimonianze. Ne ho scelte due. La prima è di Ojetti (Taccuini, primo gennaio 1933): «A Villa Torlonia il telefono annuncia che il Duce è uscito da palazzo Venezia, portino in tavola. C’è un gran piatto di pasta col ragù alla romagnola, profumato. Entrano i due ragazzi più grandi. – Ancora pastasciutta. È ora di smetterla con la pastasciutta Noi siamo i figli della rivoluzione. Questi sono piatti da vecchi borghesi. – Donna Rachele li guarda: ripetete. – Quelli ripetono l’invettiva. Ciaf, ciaf. Donna Rachele dà un ceffone all’uno e poi all’altro: – tutta colpa di quell’imbecille di vostro padre che ha nominato accademico quello stupido di Marinetti...». La seconda testimonianza sempre del 1933, è altrettanto interessante, ma viene da un teste infido, Ruggero Zangrandi («problematico» finché si vuole nelle sue crisi e nei suoi legittimi ripensamenti, ma ingeneroso e sleale verso Mussolini, lui che era stato sodale alla loro mensa, godendone la fiducia, specie del duce, che lo fece collaborare diciottenne al Popolo d’Italia: «Se non la mia riconoscenza, la mia ammirazione per il duce tendeva a decrescere a mano che potevo conoscerlo meglio. Non è un vanto: fu una fortuna. A Villa Torlonia dove mi recavo tutti i giorni per via del giornale, Mussolini si rivelava, nelle sue saltuarie apparizioni quanto meno un uomo poco normale. L’atmosfera di quella dimora era invece, quanto di più casalingo si possa immaginare. Donna Rachele, quasi sempre in faccende e in grembiule, ci portava per merenda pane e burro, esattamente come mia madre faceva quando Vittorio o altri amici venivano a casa mia». Era madre severa ma capace di affetti profondi: alla morte di Bruno (7 agosto 1941) si chiuse in disperato mutismo per un mese intero.
Protagonista nella vecchiaia
Rachele seppe di Claretta Petacci – da anni nota in tutta Roma e in tutta Italia – soltanto nei giorni successivi al 25 luglio 1943. Nella notte dopo il Gran Consiglio aveva detto al suo uomo: «Arrestali tutti, quei traditori», con roventi parole contro Galeazzo Ciano. E poi, nel primo pomeriggio di quella fatale domenica: «Benito, non andare dal re, non ti fidare, il re fa il re e se gli conviene ti butta a mare...». L’essere venuta a conoscenza della relazione con la Petacci la infuriò, ma senza staccarla da lui. Né la prostrò, in quei giorni di sbando, tra i tanti oltraggi, quello di essere molestata – il 2 agosto – dal questore Saverio Polito (gli era stata affidata dal capo della polizia Carmine Senise) in macchina, durante il viaggio di trasferimento verso Rocca delle Caminate, con i figli su un’altra auto.
Mussolini, trasferito a Ponza, le scrisse, e lei gli invio una copia della Vita di Cristo. Il giorno dopo la liberazione di lui dal Gran Sasso, il 13 settembre ’43, lo raggiunse a Monaco in aereo da Rocca delle Caminate con i figli minori (Vittorio, giudicato «disertore» dai «badogliani», era a Rastenburg dalla fine di luglio). E si rividero con commozione grande nel Vierjahrenszeiten Hotel; lo stesso albergo in cui subito Edda tentò inutilmente una cena di riconciliazione, presente Galeazzo. Mussolini, come assente, evitò di guardare il genero; della cui correttezza, a quanto si sa, sembra però abbia di lì a poco garantito «con la sua testa» presso Hitler. Fu invece l’indignata Rachele, alla fine, a scatenarglisi contro in una violentissima requisitoria: «Hai voluto fargli perdere il posto... Tu ci hai messi in questo guaio, noi è l’Italia».
Ai primi di ottobre Rachele e i figli raggiunsero Mussolini a Gargnano sul Garda (il 27 settembre a Rocca delle Caminate, lui si era intanto proclamato capo del nuovo stato repubblicano). Dalle testimonianze raccolte da Paolo Monelli e Giovanni Artieri rispettivamente in Mussolini piccolo borghese (Garzanti 1950 è in Mussolini e l’avventura repubblicana (Mondadori 1981) sembra inattendibile quanto hanno invece scritto Eugen Dollmann (Roma nazista, Longanesi 1949) ed Eric Kuby Il tradimento tedesco, (Rizzoli 1983), cioè che Rachele avesse un suo peso politico nella Rsi. Aveva, è vero, un proprio «servizio informazioni». Ma solo per controllare il marito. A Mussolini fu ben presto difficile vivere 24 ore su 24 a Villa Feltrinelli, con lei che lo tormentava, il figlio Vittorio che gli imponeva una segreteria politica tutta di amici, il figlio Romano che suonava la fisarmonica, Anna Maria che chiacchierava di continuo (non c’era Edda che già combatteva per salvare Galeazzo imprigionato a Verona), e poi le nuore, e i nipotini che lo chiamavano «nonnino» agguantandolo per le ginocchia. Aveva scelto per lavorare la più tranquilla Villa delle Orsoline, Ma se ne scappava spesso a far visita alla Petacci a Villa Fiordaliso in Gardone, poco lontano dal Vittoriale.
Tutta intenta a fare pedinare il marito, Rachele soffrì certamente meno di lui durante e subito dopo il processo che, a Verona, finì con la condanna a morte e la fucilazione (11 gennaio 1944) di Galeazzo Ciano. Se non odiava il genero al punto da volerlo fucilato, come sostiene Dollmann, certo non fece nulla per salvarlo. Né per aiutare Edda, anche se per un attimo ne temette il suicidio. E neppure fece il gesto di consolare Mussolini che, a poche ore dalla esecuzione, appariva prostrato e non aveva voluto toccare cibo.
Era ossessionata dalla rivale, è nel settembre 44 decise di affrontarla. Alla sua biografa Anita Pensotti raccontò che dopo avere raggiunto Villa Fiordaliso su una Topolino con il Ministro degli Interni di Salò Buffarini-Guidi (doppiogiochista tra lei e i tedeschi) – a Claretta parlò con calma scongiurandola di lasciare il Garda e il marito, per il bene dell’Italia e della famiglia. In realtà come raccontò Dollmann a Buffarini, e fu confermato a Duilio Susmel da un testimone, il tenente Franz Spoegler – Rachele la coprì di insulti, tentò di saltarle addosso, poi telefonò al marito davanti a lei chiedendogli: «Benito mi vuoi ancora bene sempre bene, non è vero?». Al che Claretta le mostrò un pacchetto di lettere di lui leggendole frasi d’amore. Poi afferrato il telefono, lo chiamò a sua volta imponendogli più accese profferte d’amore. Tanto che il Duce infuriato non faceva che chiedere ora a Rachele ora a Claretta, che strillavano come galline, di Buffarini, per imporgli di mettere pace, di farle smettere; disgraziati momenti, per un amante-marito. Questa parte l’impersonò sino all’ultimo. Per consolarsi si tenne accanto Claretta, disperatamente avvinghiata a lui, e il 25 aprile scrisse a Rachele, posta in salvo a Villa Mantero presso Cernobbio con i figli: «Ti chiedo perdono di tutto il male che involontariamente ti ho fatto. Ma tu sai che sei stata per me l’unica donna che ho veramente amato. Te lo giuro davanti a Dio e al nostro Bruno in questo momento supremo. Tu sai che noi dobbiamo andare in Valtellina. Tu coi ragazzi cerca di raggiungere la frontiera svizzera».
Lui finì invece a Giulino di Mezzegra e Rachele con i figli minori prima nelle carceri di San Donnino a Como, poi al campo di concentramento di Terni, quindi (26 luglio 1945) al soggiorno obbligato a Forio d’Ischia nel Golfo di Napoli. Si vociferò nel furore epuratorio di quei giorni, dei tesori accumulati dai Mussolini. Tutte fole. Rachele visse sempre in ristrettezze. E così fanno i suoi figli. Lei rimase nell’isola sino al 1949 per trasferirsi prima a Rocca di Papa quindi a Roma (dove Edda intanto era stata aiutata – ad onore loro – da una coppia di vecchi amici paterni Carmen e Pietro Nenni). Tentava di vivere nel riserbo, Rachele, mentre l’inseguivano invece i clamori giornalistici scatenatisi attorno alla Salma di Mussolini. Trafugata per iniziativa di Domanico Leccisi la notte tra il 22 e 23 aprile 1946 dal campo 16 del Musocco a Milano, dopo un lungo peregrinare (una villa a Madesimo, l’Angelicum di Milano, la Certosa di Pavia), venne poi presa in consegna dal questore Agnesina che, dopo un’ulteriore autopsia, la ripose nascostamente nella cappella del convento di Cerro maggiore.
Rachele la riebbe solo il 30 agosto 1957, grazie alla pietas di Giulio Andreotti (e del predappiese Adone Zoli, che era però anche presidente del consiglio di un monocolore dc appoggiato dal Msi), assieme al cervello che in un rigurgito lombrosiano, era stato prelevato a Mussolini nel 1945 a scopo di studio per gli studenti di medicina legale dell’università di Milano. Con grande forza d’animo, vuole riconoscere la salma. Componendola subito dopo nella cappella di San Cassiano a Predappio, Rachele lasciò scivolare nell’urna un messaggio a Benito. Che cosa vi abbia scritto nessuno lo sa. Per stare vicino al suo uomo si trasferì a Villa Carpena, nei luoghi della giovinezza; perdonò a chi ironizzando perché aveva aperto un ristorante per vivere l’aveva battezzata «l’ostessa Rachele»; soffrì molto per la morte di Annamaria; si compiacque del successo delle sue prime interviste. Era diventata una protagonista, come mai le era accaduto al tempo del fascismo. Da anni si era ormai pacificata con Edda, anche se terminava ogni loro colloquio con queste parole: «Però Galeazzo voleva fargli perdere il posto...». Morì alle 13:20 di martedì 30 ottobre 1979. Riposa accanto al marito nel cimitero di Predappio.