Tuttolibri, 29 giugno 2019
Intervista a Cees Nooteboom
L’occupazione nazista, i bombardamenti della Luftwaffe, l’invasione dell’Ungheria del 1956, il maggio francese, la caduta del muro di Berlino. In tutti i grandi eventi della storia del Novecento Cees Nooteboom, nato all’Aia lo stesso anno dell’ascesa di Hitler al potere, era lì a scriverne, prima come inviato del quotidiano olandese Het Parool, poi con altre riviste e giornali, infine con i suoi romanzi, tradotti ovunque, che fanno di lui uno degli intellettuali e scrittori più versatili dell’Europa contemporanea. In questi giorni esce in Italia, per Iperborea, 533, il libro dei giorni, dove 533 è, appunto, il numero dei giorni. «Ma non è un diario, sono piuttosto delle note», ci dice ridendo nel corso di una chiacchierata dalla sua abitazione di Amsterdam.
Cees Nooteboom, dove comincia la sua passione per la lettura, per la scrittura, per il racconto di grandi e piccole storie?
«Probabilmente ha a che fare con la mia educazione, e con il ruolo avuto dai monaci trappisti con cui ho studiato quando avevo 18 anni».
Ha avuto un’educazione religiosa?
«Non esattamente, perché i miei erano divorziati, poi mia madre rimase vedova, c’era la guerra, ci trasferivamo di continuo, e non ho mai coltivato una pratica religiosa in senso stretto, però l’esperienza nel monastero Augustinianum di Endhoven fu centrale per me, anche se sapevo che mai sarei diventato un monaco».
Perché?
«Non avrei saputo tener fede né al voto di castità- veramente troppo difficile per me - né al principio della stabilitas loci, del radicamento in unico luogo. Nella mia vita non ho fatto altro che viaggiare... Malgrado questo i monaci mi accolsero con gioia, a loro non importava che non sarei rimasto: “Intanto traduci Abelardo”, mi dissero. Mi fermai dopo dieci pagine, ma mi appassionai a Ovidio, a Virgilio, ai greci, tutto iniziò così».
Lei ha sempre guardato il mondo e la storia con grande lucidità e disincanto, cosa l’ha spinta, questa volta, a partire dai fiori di cactus?
«Nella mia casa di Minorca, dove trascorro la maggior parte del tempo, ci sono dei cactus locali, molto semplici, le opunzie. All’inizio non sapevo che farmene, ma ho un vicino di casa che era molto contento di venire da me per raccoglierne i fiori, di cui amava parlare a lungo. Poi durante i miei viaggi mi è capitato spesso di imbattermi in dei cactus, e allora ho cominciato ad interessarmi a loro. Troppo facile chiamarli semplicemente cactus, ce ne sono moltissime varietà. Hanno la particolarità di resistere a qualsiasi caldo, la loro capacità di sopravvivere mi affascina».
Si è scoperto anche lei un’anima «verde» in linea con i tempi in cui viviamo?
«Io sono un ragazzino molto vecchio, e siccome vivo ad Amsterdam, dove gli ambientalisti sono davvero un po’ dittatoriali nelle loro pretese di abolizione del traffico, tante volte non mi riconosco nelle loro battaglie, che trovo un po’ fanatiche. Ma se fossi tedesco alle ultime elezioni avrei sicuramente votato verde».
Quest’Europa, negli ultimi tempi, ha mostrato anche un lato molto più cupo, ostile al diverso e allo straniero. La spaventa?
«Ho viaggiato molto nella mia vita, per me gli stranieri sono le persone che ho incontrato più spesso, ma per la maggior parte delle persone rappresentano una diversa educazione, una diversa cultura. Hanno paura, e la paura spesso si trasforma in rabbia. Non so cosa ci si debba aspettare, ma se conosci la storia, vedi che alcune cose tendono a ripetersi».
Ad esempio?
«Prendiamo la Spagna, dove mi trovo molto spesso. Ho visto nascere dall’inizio la questione catalana, un’ossessione che è cresciuta giorno dopo giorno, fino al punto che, in una popolazione che per la maggioranza non vuole l’indipendenza, si è strutturato un movimento nazionalista in modo del tutto irrazionale... quindi se sei una persona povera del Sud dell’Andalusia e vai a lavorare a Barcellona e non parli catalano, i tuoi figli a scuola lo devono imparare per forza, e tu sei costretto a cambiare vita. Non ha senso».
In questo libro lei dedica molte pagine all’Ungheria, che ha conosciuto da ragazzo. Come si concilia la storia ungherese di oggi con quella europea?
«Sono legato all’Ungheria per la sua politica e per la sua letteratura. Ricordo quando vivevamo a Berlino Ovest io e Lazlo Foldenij, un professore di filosofia autore di libri bellissimi. La cosa incredibile è che allora la Germania Ovest era piena di rifugiati ungheresi, che chiedevano asilo e ospitalità, e oggi proprio loro sono i più ostili a dare asilo, me lo spiego soltanto con il sarcasmo della storia...».
Lei conosce bene la Germania, come vede l’avanzata dell’estrema destra?
«Noi olandesi siamo stati occupati dalla Germania, mio padre morì durante la guerra, e quindi il sentimento collettivo verso la Germania era di grande ostilità. Col tempo però i tedeschi si sono resi conto di cosa hanno fatto a tutta l’Europa, e grazie a un serrato confronto con il passato hanno elaborato molto più di altri paesi. Della Francia, della stessa Italia sulla sua storia coloniale. Adesso su questa avanzata della destra non sono preoccupato , la democrazia tedesca funziona. Di tutte le destre che ci sono in Europa quella tedesca è quella che mi fa meno paura».
Il suo libro si chiude con una riflessione su chi muore in mare. È questa l’eredità che lasciamo alle generazioni future?
«Ciò che sta accadendo nel Mediterraneo è una vergogna, penso che gli italiani abbiano ragione, l’Europa non è stata un esempio di solidarietà con Italia e Spagna. Voi avete il problema, e non avete avuto né il sostegno del Nord, né tantomeno del’Est, ma le migrazioni non si fermeranno per questo. Personalmente mi rende molto felice che i miei libri abbiano avuto più successo in paesi del Sud Europa che nel Nord, come se fosse questa la terra dei miei antenati».
Il suo è anche un libro che parla di libri, e dei molti autori letti. Cosa sta leggendo adesso?
«Viaggio molto e leggo molto, e più vai verso la fine più pensi di non aver letto abbastanza. Ora sto leggendo un libro meraviglioso di una signora inglese; si intitola Son of Time, e alla fine ci fa vedere un’Inghilterra molto più vicina a noi di quanto si pensi».
In che senso «Il libro dei giorni», che si snoda per 533 giornate, non può dirsi un diario?
«Scrivere un diario ogni giorno è un altra cosa, deve darti l’effetto, quando lo rileggerai dopo molto tempo, della quantità delle cose pensate, e fatte. Un vero impegno, bisogna ricordare tutto. La mia è piuttosto una visione di mezzo, in cui le riflessioni si alternano agli spunti, alle letture, ai colpi d’occhio, ai fiori di cactus...».