La Stampa, 29 giugno 2019
Intervista allo chef Ferran Adrià
In tempi in cui sembra non ci si accontenti di nulla, stupisce sentirsi rispondere così: «No, non ho altri desideri, ho fatto tutto ciò che volevo. E senza nemmeno sapere di volerlo».
Ferran Adrià si sente così: fortunato, e anche «felice da tutta la vita». La sua biografia professionale lo conferma. Da ragazzo non sognava l’Olimpo degli chef ma come tanti coetanei una carriera calcistica. Nella prima cucina, con mansione lavapiatti, ci è finito per caso a 18 anni «solo per pagarmi le vacanze a Ibiza». Con il tempo però si è innamorato del lavoro ai fornelli e lo ha rivoluzionato (per alcuni strapazzato) con sifoni, spume e sferificazioni.
Ha trasformato il ristorante catalano elBulli (chiuso nel 2011 in attesa della sua prossima vita) in un’istituzione planetaria e si è guadagnato l’appellativo di «Picasso della gastronomia» per aver innovato la cucina come nessuno prima e dopo di lui. Oggi lo chef catalano lavora a una monumentale enciclopedia gastronomica, Bullipedia, prepara il debutto di elBulli 1846, un laboratorio della creatività che nascerà nella sede del mitico ristorante della Costa Brava, e vola spesso a Torino, «la mia seconda casa», perché con Lavazza ha creato il progetto del ristorante Condividere alla Nuvola (che ha compiuto un anno).
Qui lo incontriamo, vestito tutto di nero dopo tanti anni in cui è stato «costretto» al bianco, al termine di un incontro in cui si parla di innovazione, in cucina ma non solo.
Davvero è felice da sempre?
«Ogni vita ha i suoi dolori e ho sofferto per le malattie dei miei genitori. Ma in generale sì, lo sono. Poche persone senza vocazione sono arrivate così lontano come me e mio fratello (anche lui chef, ndr.). Siamo delle mosche bianche».
Molte invidie?
«Chiunque, camminando per strada, piace al 50% di chi incontra e all’altro 50% no. A volte ti invidiano o odiano senza che tu abbia fatto nulla, solo a pelle. È un danno collaterale».
Inizialmente l’inaugurazione di elBulli 1846 era prevista in queste settimane. Cosa sarà e quando aprirà?
«Sarà un efficiente laboratorio della creatività a cui parteciperanno non solo cuochi, ma anche artisti e filosofi. Faremo dei bandi online per le candidature. La prima squadra potrebbe arrivare in primavera, ma già a settembre qualcosa inizierà a muoversi. È un progetto di una fondazione privata, elBulliFundation, quindi il bello è che posso concedermi il lusso di aprire senza fretta, con i tempi che ritengo giusti».
Arte, filosofia e cucina insieme. Quali sono gli artisti che l’hanno ispirata?
«Tutti e nessuno. Ho avuto diversi stimoli da Vicente Todolí, ex direttore della Tate Modern, o da Toni Segarra, pubblicitario. Adoro Da Vinci, Dalí e Picasso, è ovvio, ma io sono contemporaneo. E comunque, nel bene e nel male, tutto quello che ho fatto lo ho fatto da solo, senza nessuno nella testa».
È considerato il padre della gastronomia molecolare. Si sente uno chef anche se oggi, dopo la chiusura di elBulli, non cucina più?
«Sì certo. Per me cucinare non significa tagliare le verdure ma pensare alla cucina, e io penso alla cucina il 70% del mio tempo. Anche durante questa intervista, quindi, sto cucinando. La cucina molecolare era solo una parte di quello che elBulli faceva, solo uno dei suoi 45 sottostili. Un altro era ad esempio il giapponismo, l’unione della cucina occidentale con l’Oriente».
Qual è oggi il Paese più innovativo nella gastronomia?
«Il Giappone. È lì che bisogna andare per vedere cosa sta succedendo. Presto però potrà essere superato dalla Cina».
Quale sarà la prossima rivoluzionenella gastronomia?
«Le rivoluzioni non si annunciano, succedono all’improvviso. Se penso a un cambiamento... per quanto possa sembrare fantascienza, direi il fatto che mangeremo con il cervello. Fra 20 anni saranno possibili manipolazioni tali del nostro cervello che potremo avere l’impressione di mangiare a elBulli pur stando a casa nostra. Oggi a cucinare per noi sono le aziende farmaceutiche, basta pensare a tutti i composti di proteine che tanti assumono. In futuro sarà ancora diverso».
Un futuro che le piace?
«No. Per me mangiare è condividere, gustare, toccare».
Cosa le piace cucinare quando è a casa?
«Non mi piace cucinare. Però mi piace mangiare quindi cucino. Soprattutto frutta e frutti di mare».