Il Messaggero, 29 giugno 2019
Sulla pace di Versailles
Finita la prima guerra mondiale, il 28 Giugno 1919 a Versailles fu firmato il trattato di pace. In occasione del centenario è uscito un saggio di Eckart Conze, con un titolo mutuato da un celebre film di Jean Renoir: La grande illusione. L’illusione era, naturalmente, quella di far guerra alla guerra, e di istituire, a tavolino, i presupposti di una pace perpetua. È singolare come questa generosa utopia ricorra periodicamente tra i filosofi e i religiosi, cioè tra gli eruditi che più di ogni altro dovrebbero sapere che, o per la nostra darwiniana origine ferina, o per la caduta di Adamo e la maledizione di Caino, l’uomo mantiene l’ esclusiva prerogativa di ammazzare i suoi simili senza necessità di cibarsene. Come insegnava Platone, solo i morti videro la fine della guerra. Ma torniamo al libro. Non ha il ritmo maestoso del From war to war di Churchill, né l’arcigno razionalismo del Grandeurs et misères d’une victoire di Clemenceau. Ma per ricchezza di fonti, accuratezza bibliografica, e linearità di esposizione è forse il miglior documento recente su quella pace controversa. Conze non aggiunge nulla a quanto già non sapessimo: le fantasie oracolari di Wilson, la vendicativa rigidità dei francesi, il cinismo colonialista britannico, le bizze italiane e le frustrazioni dei tedeschi. Tutte circostanze che avrebbero contribuito a determinare il secondo conflitto. Ma queste situazioni sono indicate in modo netto e compiuto, cercando di conciliare le differenti prospettive dei diversi protagonisti. Il che, per uno storico, non è poco.
LE ANALOGIEGli spunti maggiori di riflessione ci derivano, tuttavia, dall’ Epilogo, e sono due: 1) i rapporti tra giustizia punitiva e riconciliazione; e 2) le analogie con la situazione attuale.
Primo argomento. Finita la guerra, furono istituiti vari tribunali per la punizione dei crimini. Conze non si allinea acriticamente al mito della loro efficacia, e si pone la domanda della tensione fra l’interesse indiscutibilmente legittimo di persecuzione penale da un lato, e l’imperativo della riconciliazione dall’altro. E saggiamente conclude: Contrariamente a quanto si potrebbe pensare a prima vista, la pace, intesa come riconciliazione e giustizia, non è necessariamente un obiettivo congruente. In politica si dibatte se le misure di persecuzione penale internazionale contribuiscano alla pacificazione dei conflitti o se invece non portino a mantenere le tensioni e con ciò a impedire la pace e la riconciliazione.
In effetti, è difficile credere che questi processi, da quello di Norimberga ai più recenti sui Balcani, abbiano avuto e abbiano in futuro effetti deterrenti. Come i tribunali nazionali, anche quelli internazionali servono a dimostrare l’esistenza del Diritto, ma non eliminano né riducono i crimini e tantomeno le guerre. Non solo. Spesso vengono interpretati come la Giustizia del vincitore suscitando rancori più che fiducia, e così avvenne per quelli istituti dopo la prima guerra mondiale. Alla fine della seconda, Churchill, benché inorridito dall’esibizione di piazzale Loreto, ammise che «ci aveva risparmiato una Norimberga italiana».
Il secondo argomento dell’Epilogo del libro è invece più discutibile. La tentazione di trovare analogie tra passato e presente è comune a quasi tutti gli storici per due ragioni. La prima, che queste analogie spesso esistono, e talvolta sono quasi impressionanti. Ad esempio le cause della caduta dell’impero romano indicate da Gibbon la crisi demografica, l’invasione di stranieri, l’affievolimento delle virtù civili, il rilassamento dei costumi, l’avvento di una religione rinunciataria e pacifista ecc sono assai simili a quelle del tramonto della nostra civiltà occidentale. La seconda ragione è che, attraverso queste analogie vere o presunte, un libro acquista in attualità e quindi in interesse, per non dire in vendite. E quindi un autore ci gioca volentieri. Conze individua questa analogie tra Versailles e noi nei mali di questi ultimi anni: nazionalismi, identitarismi, protezionismi, sovranismi. E porta ad esempi Trump, Erdogan, Putin e qualche altro. La storia conclude non si ripete ma i parallelismi ci sono eccome, ed è davvero impossibile non vederli.
Con tutto il rispetto per Conze, è vero il contrario. Questi parallelismi non ci sono proprio. I germi maligni di Versailles, che avrebbero alimentato il secondo conflitto mondiale, erano di tutt’altra natura: l’umiliazione di una Germania arresasi con l’esercito ancora intatto e il territorio mai profanato dal nemico; l’imposizione di risarcimenti stratosferici, che non si sarebbero mai potuti onorare; la disgregazione di quattro imperi e la creazione di nuovi stati sovrani comprensivi di minoranze frustrate e aggressive; la sfaldamento dell’alleanza dei vincitori, dilaniati da interessi configgenti.
LA DIFESAE, non ultima, una politica di appeasement derivante dal disgusto della guerra e dalla riluttanza a concepire ogni forma di difesa armata. Non solo. La stessa strategia verso la Germania fu oscillante e contraddittoria. La Francia, ossessionata dalla sicurezza, poteva seguire due vie: quella più spietata indicata da Foch che, ragionando da militare, proponeva l’annessione dei territori ad ovest del Reno sì da ottenere una barriera protettiva naturale. Oppure quella più lungimirante, aiutando la Germania nella ricostruzione e favorendone lo sviluppo democratico, come sarebbe avvenuto nel 45. Invece scelse una via di mezzo. Strapazzò e umiliò il nemico sconfitto, ma lo lasciò sostanzialmente integro e pericoloso. Quando, Hitler arrivò al potere, in pochi anni rimilitarizzò la Renania, invase l’Austria, strappò i Sudeti, e si mangiò il resto della Cecoslovacchia. Nel 39 il suo obiettivo non era più quello di rimediare alle ingiustizie di Versailles, ma di soggiogare l’ Europa occidentale e occupare quella orientale. Quando Francia e Gran Bretagna si risvegliarono dal torpore pacifista Hitler stava già conquistando la Polonia.
LE CONVENIENZEOggi la situazione è completamente diversa. I sovranismi non mirano a rivincite o espansioni, ma piuttosto a un ripiegamento sulle proprie convenienze particolari. La diffidenza che alcuni Stati nutrono nei confronti dell’Unione Europea non ha nulla a che vedere con il revanscismo tedesco suscitato dalla cieca arroganza di Versailles. E neanche i paesi finanziariamente più esposti sono lontanamente paragonabili alla disastrata repubblica di Weimar con la sua quotidiana iperinflazione. Infine, non c’è nessun Hitler all’orizzonte. Purtroppo non c’è neanche un Churchill.