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 2019  giugno 29 Sabato calendario

Sulla pace di Versailles

La Storia che si insegna nelle scuole e la sua sorellastra, la Storia di giornali e tv, implicano che da un set di eventi possa derivare una sola conseguenza. Dal torchio a stampa di Gutenberg giornali, riforma protestante, rivoluzione francese. Dalla caduta di Parigi 1940 la riscossa inglese con Churchill nella II guerra mondiale. Queste sceneggiature a esito fisso facilitano l’attenzione di scolari e lettori, ma offuscano il passato. Giappone, Cina, Corea, perfino Roma antica, sperimentarono caratteri mobili a stampa ma niente rivoluzioni, Churchill fu a mezzo passo da non diventare premier nel maggio 1940 quando tanti a Londra volevano la pace con Hitler: le isole inglesi della Manica, occupate dai nazisti, furono docilissime con i tedeschi, chissà se così sarebbe stato anche nella madrepatria.
La stessa lettura forzosa grava sul centenario della firma del patto di Versailles, il trattato di pace che, il 28 giugno 1919, cinque anni dopo l’assassinio dell’Arciduca Francesco Ferdinando a Sarajevo, nella pomposa Sala degli Specchi dell’antica reggia, chiuse la I Guerra Mondiale.
Il presidente americano Woodrow Wilson considerava il Trattato di Versailles, con la Società delle Nazioni di Ginevra, e i suoi piani per la pace perenne, una svolta nella storia, l’oblio della guerra. Le cose andarono altrimenti, perché nessun evento è mai ineluttabile. La Germania sconfitta pagò prezzi enormi, in territorio, riparazioni, smobilitazione militare, umiliazione nazionale e quindi – ci dicono libri e elzeviri- si posero i semi del nazismo, della II guerra mondiale, perfino del fascismo, con il presidente italiano Vittorio Emanuele Orlando a subire lo smacco della «vittoria mutilata».
Fu davvero così? No, in realtà il piano di pace che la Germania aveva in serbo per le democrazie, in caso di vittoria, era assai più acerbo, «Pace cartaginese», sale sulle rovine dei perdenti. E quando la Russia di Lenin si arrese ai tedeschi a Brest-Litovsk, marzo ‘18, il prezzo pagato da Mosca fu più pesante di ogni protocollo a Versailles.
Le immagini del 28 giugno 1919 rimandano a una coreografia grottesca, la Francia ama il melodramma politico, con i fanti mutilati, sull’attenti davanti ai notabili tedeschi, quasi a esigere vendetta personale. Hitler ripagherà i nemici, con analoga messa in scena su un vagone ferroviario nel ‘40 ma anche la sua soddisfazione sarà effimera.
Punto cruciale di Versailles non è la presunta durezza, intravista tra i primi dal geniale economista inglese Keynes, che aveva partecipato da diplomatico al Trattato e che, nel pamphlet Le conseguenze economiche della pace, aveva argomentato a favore non già di migliori condizioni per i tedeschi, ma dell’apertura di un processo di integrazione europea tra i belligeranti, senza la grandeur vana del premier francese Clemenceau. Come osserva l’astuto statista americano Henry Kissinger, nato in Germania 4 anni dopo Versailles, l’errore ebbe un’altra prospettiva, poco discussa: «La mappa dell’Europa di oggi è ancora quella di Versailles. Nessuno degli statisti, allora, comprese le conseguenze del patto, opposte a quelle che avevano in mente». La pace ha bisogno di due pilastri, ammonisce Kissinger, equilibrio tra i poteri e legittimità davanti ai popoli. Versailles irrise il potere di Russia e Germania, schierandole presto contro le democrazie, e nelle città e nella campagne d’Europa, anche in Italia, il documento venne considerato ingiusto.
Il presidente Wilson fece bene a introdurre in politica estera valori e diritti umani, secondo la migliore tradizione costituzionale Usa, ma dimenticò che tra etica e forza non c’è contraddizione, senza il sostegno militare agli accordi tutto precipitò. Anche dopo la II guerra mondiale c’era chi voleva la «Pace cartaginese» e la distruzione della Germania industriale, nel piano redatto per il presidente Roosevelt dal consigliere Morgenthau. Prevalse, memori della débâcle Versailles, la saggezza del Piano Marshall, ma il presidente Truman tenne alta la difesa militare. Versailles lasciò la Germania circondata, a Est, da stati fragili, solo la permanente smilitarizzazione di Berlino, avrebbe mantenuto la pace ricorda Kissinger. Una volta partito il riarmo, invece, con le democrazie preoccupate dalla Russia sovietica, il Genio della guerra era di nuovo libero. Il Trattato aveva dimenticato i razzi tra le sue clausole e su quegli ordigni si mise al lavoro un giovane scienziato von Braun, poi famoso per le bombe V1 e V2 naziste e lo sbarco sulla Luna.
Dai fasti del G 20, il presidente russo Vladimir Putin ha annunciato che il liberalismo è obsoleto, i diritti di emigranti e Lgbt contro la tradizione, mentre i traditori vanno puniti con la morte. Scommette che l’Occidente non sappia difendere pace e libertà, con il diritto o le armi. Putin crede nella Storia a senso unico, come i manuali, talk nazionalisti e solenni statisti di Versailles, un senso per lui afferente all’autoritarismo di Mosca, Pechino o del populismo nostrano. Vedremo presto se avrà avuto ragione o se, come l’orgoglioso Clemenceau, resterà abbagliato dalla Storia riflessa nella Sala degli Specchi a venire.