Robinson, 29 giugno 2019
Biografia di Leone Magiera
Ci sono coppie che ballano per tutta la vita. Finiscono con il conoscersi talmente bene da mettere in comune lo sguardo, il cenno della mano, la parola trattenuta, l’impazienza e la calma, l’intreccio e il ritmo. Una trasfusione continua di sangue musicale ed emozioni. Leone Magiera e Luciano Pavarotti si sono appartenuti l’un l’altro come un temporale e le tante gocce che lo compongono. Da anni uno dei due non c’è più. Ma quando le cose finiscono non è detto che finiscano veramente e allora vale la pena farsi raccontare come continua la vita, come ci si guarda indietro. Magiera vive a Bologna con una seconda moglie che è medico e una figlia giovane. È stato sposato anche con Mirella Freni, una delle migliori voci della lirica degli anni Sessanta e Settanta. Mi dà l’idea di un emiliano introverso. Cosa rara. Ma forse è solo un’impressione. Forse era il suo modo per difendersi dall’esuberanza contagiosa del grande Luciano. Come vi siete conosciuti? «Fu lui, anzi la madre, a telefonarmi. Vivevamo entrambi a Modena. Avevo 19 anni, ma già insegnavo musica. Luciano mi chiese se potevo ascoltarlo. E poi aggiunse: devo decidere cosa fare nella vita. Aveva cominciato a fare il maestro di scuola elementare e contemporaneamente l’assicuratore. Si presentò questo ragazzo piuttosto aitante e vitale. Provò un’aria dalla Lucia di Lammermoor e Che gelida manina da La Bohème». Che effetto le fece? «Notevole. La voce era fresca, bella anche se ancora non potente né estesa. Cantava e gli occhi gli ridevano. Lo accompagnavo al piano e il cuore mi batteva. Era un diamante grezzo. Finita l’audizione mi chiese: e allora? In quella voce c’era tutta la nostra terra e il grande amore per la musica. Gli dissi: devi studiare molto se vuoi diventare un grande tenore. Non conosceva la musica. Non l’avrebbe mai imparata. Ma le sue corde erano divine». Come vi lasciaste? «Gli dissi che lo avrei aiutato per tutto quello che riguardava lo spartito e gli proposi un maestro per la voce. Ci lasciammo con una stretta di mano, non prima che Luciano mi appioppasse una polizza sulla vita». La sua passione per la musica come è nata? «Fu uno zio a favorire la mia inclinazione musicale. Mio padre era ingegnere e per quanto potesse amare la musica immaginava un futuro diverso. Poi una sera, durante la guerra, ascoltai alla radio suonare Alfred Cortot, provando qualcosa di indescrivibile. Mia madre la interpretò come una vocazione e mi fece studiare. Mi diplomai al conservatorio a 18 anni». Immaginava una carriera di concertista? «Sì, ma non ero emotivamente preparato all’impegno del solista. Cadevo nel panico. Per lungo tempo ho insegnato e accompagnato i cantanti al pianoforte». Tra questi un posto fondamentale occupa Mirella Freni. «Il primo concerto lo feci a 13 anni con lei che ne aveva 12. Poi nacque l’amore e infine il matrimonio. Anche in lei vidi il talento e la volontà di affermarsi». «No, lo dico perché a volte intuivo in lei la rabbia, la spinta di chi veniva da un ambiente umile, cercando un riconoscimento per il grande dono che aveva ricevuto. Lo dico consapevole che io non ho mai avuto quel furore e forse l’ho invidiata». Quanto è durato il vostro matrimonio? «Cominciammo a frequentarci regolarmente nel 1950, ci sposammo nel 1955 e nel 1977 divorziammo. Nel 1956 nacque Micaela. La nostra fu una storia straordinaria. Ci sono voci che possono cambiare per un momento la vita delle persone. Quelle di Mirella e di Luciano avevano questa forza». Hanno cantato insieme? «Molte volte e ho sempre creduto nel loro successo». Come furono i loro debutti? «Come tutti i debutti non facili. Una persona che è stata fondamentale per entrambi fu Herbert von Karajan. La voce di Mirella conquistò Karajan e si sa quanto fosse difficile e selettivo. Si disse perfino che era diventata la sua prediletta, scatenando invidie e pettegolezzi». Tra chi in particolare? «A soffrirne furono soprattutto Renata Scotto e Giulietta Simionato. Si scatenarono le tifoserie. Mirella fu inondata di lettere anonime piene di minacce e insulti. Milano divenne il luogo dello scontro. Era il dicembre del 1964. E quando finalmente arrivò il giorno della prima della Traviata la tensione e i veleni della vigilia ne avevano minato il corpo e la voce». Come andò? «Fu un disastro generale. Agli applausi della platea reagirono con urla e fischi dal loggione. Mirella, ma anche gli altri cantanti, persero il controllo dei nervi. Per un attimo pensai che non si sarebbe arrivati alla fine. Fu una serata infausta. Che si concluse con la folla, vociante e malintenzionata, che bloccò l’ingresso principale della Scala e pure quello secondario». E voi? «Noi restammo per ore asserragliati all’interno del Teatro. Qualcuno tentò di uscire tra due ali di folla urlanti. Il povero Zeffirelli fu inondato di sputi. Il maestro Karajan venne prelevato e messo in salvo da una camionetta militare. Io, Mirella e Pavarotti restammo ancora a lungo. Poi grazie a un sotterfugio di Luciano riuscimmo a “evadere”». Che conseguenze ci furono? «All’inizio Mirella restò sconvolta e per mesi si chiuse in casa senza voler vedere nessuno. Poi lentamente si tornò alla normalità. Accettò l’offerta di Francesco Siciliani di tornare alla Scala per la Bohème, che fu un trionfo. L’odio che aveva avvelenato il clima della Traviata si trasformò nuovamente in amore. La folla è davvero un mistero». Pavarotti è incorso in qualche disavventura? «Sul piano della gestione del successo è stato certamente più abile. Vere e proprie débâcle non ci sono state. Però ricordo uno spiacevole incidente che avvenne agli inizi della carriera, quando Luciano fu chiamato per sostituire un tenore locale che il direttore riteneva inadatto nel ruolo del Duca di Mantova nel Rigoletto. Eravamo al Comunale di Piacenza». Cosa accadde? «I fans del cantante locale non gradirono la sostituzione e provarono in tutti i modi a sabotare lo spettacolo. Innervosendo i cantanti. Ma Luciano fu talmente bravo da entusiasmare la platea. Pensai che avevamo sconfitto i propositi bellicosi del loggione, quando nell’attimo di silenzio che segue l’ultimo acuto de La donna è mobile esplose un fragoroso e osceno rutto. Nello sbigottimento generale Luciano ebbe la prontezza di riprendersi e quando cantò Bella figlia dell’amore dalla platea ci fu l’ovazione». Come sono stati i vostri rapporti? «Fraterni, sebbene avessimo caratteri opposti. Luciano era un istrione, simpatico e contagioso. Con un’innata gioia di vivere. Capace di coinvolgere decine di persone attorno a una tavolata. Si sa quanto per lui contasse il cibo. Io sono schivo, perfino insicuro, pieno di fobie tra cui quella dell’aereo. Che riuscii a vincere solo quando intrapresi con Luciano il viaggio in Cina. La mia seconda moglie mi imbottì di farmaci». I cinesi amavano Pavarotti? «Lo adoravano. Luciano, non so come, era riuscito a far caricare sul Jumbo alcuni frigoriferi pieni di vettovaglie italiane. Portò con sé perfino un cuoco genovese. E per tutta la tournée mangiammo cibi liguri ed emiliani cucinati da Zeffirino». È mai stato invidioso del successo della Freni e di Pavarotti? «Ho contribuito al loro crescere, percependone la grandezza e anche il pericolo». Cosa intende? «La grande notorietà, soprattutto se arriva velocemente, cambia l’animo delle persone. Non voglio dire che lo peggiori. Ma certamente muta il modo con cui gli altri ti vedono. E di conseguenza come tu ti vedi». Le dava fastidio quella mutazione di sentimenti? «Non mi faceva piacere. Non era rabbia né invidia e neppure gelosia. Era paura e disorientamento. Ricordo che Mirella e Luciano tennero un concerto a Parigi. Partimmo da Modena in quattro: loro due, io e Adua, la moglie di Luciano. Dopo l’esibizione parigina ci fu un ricevimento. Mirella per tutta la sera non fece che parlare con un elegante signore. A un certo punto mi avvicinai con una coppa di champagne e gliela versai nella scollatura, dicendole in dialetto “ma taci bamboccia!”». Come reagì? «Indifferente alla provocazione continuò a conversare. Frustrato ripresi a bere. Uscimmo che ero letteralmente ubriaco. Anche Adua sbronza, per il troppo whisky ingerito. All’hotel dove pernottavamo c’era un’imponente scalinata rossa. Io e Adua la risalimmo a quattro zampe, mimando i versi inconfondibili di due cagnolini. Ecco, ci sentivamo, tra le risate di Mirella e Luciano, come due bestiole al guinzaglio». Fu quello l’inizio della fine del rapporto con sua moglie? «Fu solo il remoto avvertimento per qualcosa che in parte scoppiò dopo la disavventura scaligera della Traviata e poi nel dissapore quotidiano che, tra motivi spesso futili, rivelava la stanchezza e il deterioramento del rapporto». La sua vita al di là di queste due personalità come è stata? «Ho collaborato con i maggiori direttori d’orchestra: Gavazzeni, Giulini, Celibidache, Solti, Abbado. Per cinque anni tutte le estati al festival di Salisburgo ho preparato per Karajan i cantanti per l’opera italiana». E Karajan tra i nomi che ha fatto è stato il migliore? «È sempre difficile stabilire classifiche. Adoravo la sua musicalità. Ogni volta che eseguiva qualcosa avevo l’impressione che avesse fatto un passo ulteriore verso la verità artistica». Perché la gente ha così profondamente amato Pavarotti? «Come Karajan anche Luciano è stato un personaggio mediatico. La sua voce è stata eccezionale perché oltre alla tecnica trasmetteva qualcosa di vero». Lo ha frequentato fino all’ultimo? «Negli ultimi tempi cominciò a calcare un cappellaccio e a cantare seduto. Il male che a sua insaputa iniziava a divorarlo lo aveva fatto dimagrire. Diceva di avere qualcosa che non capiva. Poi si scoprì che era un tumore al pancreas. Non fu bello quel finale di partita. Registrai con lui ancora un brano. Era un suo pezzo forte: Nessun dorma. Portai la base e lui cantò un’ultima volta. Fu incredibile. La sua voce ancora intatta era da brivido. Stavamo seduti su due sgabelli con le cuffie alle orecchie. Poi, chiusa l’esecuzione, sfinito, ricadde sulla sedia a rotelle». Fu l’ultima volta che lo vide? «No, andai a trovarlo pochi giorni prima che morisse. Chiese un piatto di rigatoni. Ma non poteva mangiarli. Gli portarono del purè. “Tu capisci come mi sono ridotto?”, disse con una punta di malinconia». L’impressione che ricavo dal nostro incontro è di trovarmi davanti alla solitudine dei numeri secondi. «Capisco cosa vuole dire. Ma la solitudine vera la provano solo quelli che toccano la vetta. È il loro destino e la loro condanna. Da un lato l’eternità e dall’altro l’irrilevanza. Credo di essere stato un buon insegnante. Un discreto pianista e perfino un direttore d’orchestra. In questi anni ho lavorato agli studi di Chopin. Ne sono felice perché oggi il suono è stanco e la sfida è di ritrovarmi con me stesso. Con quello che sono stato e che, paure a parte, avrei voluto essere. Perché questa è la vita umana. Non so spiegarlo bene. Ma è come se, giunto a 85 anni, ritrovassi intatti tutti i miei sogni».