Robinson, 29 giugno 2019
Intervista a Laurie Anderson
Parlare di sé, della propria vita, della propria storia. Parlare del mondo com’era e com’è, di muri e politica, di poesia e amore, con il fantasma di Lou Reed e l’ombra di Trump, la voglia di offrire uno “stand up show” e la capacità, intatta negli anni, di sorprendere. Questo e molto altro è al centro di Language of the future, performance-concerto-lettura di Laurie Anderson in programma al festival Terraforma, venerdì 5 luglio, Parco di Villa Arconati, Bollate, Milano. Lo spettacolo è vecchio e nuovo al tempo stesso. Per la sua natura, si è costantemente modificato e aggiornato dal 1984, anno in cui l’artista americana l’ha presentato per la prima volta. Si è trasformato sempre in qualcosa di nuovo, diverso, attuale. E nuovo è certamente per noi perché in tanti anni Laurie Anderson non lo aveva mai portato sulle scene italiane. Language of the future è in costante evoluzione perché il futuro è sempre davanti a noi e Anderson cerca di scrutarlo continuamente attraverso la sua arte, il suo modo di leggere e interpretare la contemporaneità. Così lo show che, potremmo dire, nacque da una costola di United States del 1980, è sempre attuale e nuovo: «Mi interessa molto il mondo in cui lo spettacolo evolve», dice lei, «questa volta ad esempio sarà molto più musicale che in passato». Come è cambiato “Language of the future” negli anni? «Prima di tutto sono cambiati i tempi e sono cambiata io. Alcune cose che mi interessavano non mi interessano più e alcune che non erano nel mio orizzonte oggi lo sono. E poi c’è una cosa fondamentale che mi interessa, ed è il fenomeno dell’esperienza dell’improvvisazione, cosa che prima non facevo e ora invece, nel presente, mi piace molto». Perché? «Mi incuriosisce la strana cospirazione che si crea con il pubblico, che al pari di me non sa dove il pezzo può andare, può trovare cose diverse e può essere sorpreso. È come stare sulle montagne russe. All’inizio una situazione di questo tipo mi rendeva molto nervosa, mi intimoriva il fatto che non ci fosse un piano. Invece ho scoperto che in alcuni casi è meglio non avere un piano e seguire l’intuizione». Lei disse una volta che il linguaggio è un virus. Ne è ancora convinta? «Trovo sia interessante ancora oggi vedere le relazioni tra linguaggio e virus. All’inizio, la prima volta che l’ho sentito, da William Burroughs, mi sono detta che era una grande idea, oggi non saprei dire se il linguaggio sia un virus o se il virus stesso sia un linguaggio. Certo, la parola parlata crea delle esche, dei mascheramenti, del cicli continui, il linguaggio della gente si adatta facilmente ed è facile diffondere parole. Il problema oggi è quello di fidarsi del linguaggio. Mi piacerebbe mettere in giro idee ottimistiche, rivoluzionarie e potentemente ironiche, mi piacerebbe trovare dei meccanismi nel linguaggio per disinnescare le cose pericolose…». Oggi spesso il linguaggio non ci basta per capire cos’è realtà e cosa finzione. «Non c’è una regola e questo è sia un bene che un male. Io uso la mia vita personale come materiale artistico, come scrittrice mi espongo in prima persona, uso la mia vita, i dettagli intimi, ma non è necessario che si capisca del tutto cosa è vero e cosa no. Penso che ci sia un grande fraintendimento, la gente crede che sia tutto autobiografico invece io spesso porto in scena dei personaggi, non dico tutto della mia vita. Ma è vero che tutti usiamo la realtà per raccontare storie con le quali il pubblico altrimenti non potrebbe relazionarsi. Faccio un esempio: il film di Scorsese sul Rolling Thunder Review, il tour che Bob Dylan fece nel 1975, è molto bello, ci racconta una storia, una situazione in cui io, personalmente, non potevo essere e questo rende impossibile, per me, capire cosa sia vero e cosa sia fiction. Ma io amo entrambe, non so distinguere dove Dylan mente e dove dice la verità ma non ha importanza». Porta “Language of the future” solo al festival Terraforma. «Sì, è un unico show. Ho scelto di essere al festival, ho accettato e ho cancellato altri impegni per poterlo fare, ho bloccato il lavoro su un’opera, su un disco. Dopo aver accettato ho guardato il sito di Terraforma e ho visto i topic sull’ambiente, che è una materia alla quale sono molto interessata, e ho pensato a quale potesse essere il modo di rendere unica questa partecipazione. Ci saranno novità, dunque, ma anche alcune cose del passato, perché per quanto mi possa focalizzare sull’improvvisazione non sono un’improvvisatrice totale, quindi sto lavorando su quello che posso incorporare nella performance, i reading che farò sono ovviamente già scritti e non improvvisati. Vedremo quello che accadrà». Qual è la musica che le interessa di più attualmente? «Dipende dal giorno e dall’ora. Sono piuttosto eclettica, ascolto di tutto, non c’è un genere che prediligo in particolare. Posso dire che l’unica cosa che realmente non mi interessa sono i musical. Li ho ascoltati forse qualche volta per divertimento, ma sostanzialmente li trovo stupidi. Forse sono l’unica persona nell’intera città di New York che è uscita, prima della fine, da un teatro in cui era in scena un musical. Quelli che cantano e ballano non mi interessano molto».