Robinson, 29 giugno 2019
Le foto di Eve Arnold
Da un comizio di Malcom X tornò “con un vestito a pois”. Erano bruciature di sigarette. Figuratevi: una donna ebrea bianca in mezzo ai Black Muslim arrabbiati. A un raduno del KKK, invece, un nazista dell’Illinois le latrò in faccia: «con te, ci farei una bella saponetta». Lei rispondeva con un clic. E adesso guardate pure un ritratto di quella dolce fragile sorridente timida vecchietta di nome Eve Arnold, magari uno di quelli che si lasciò fare poco prima di morire, nel 2012, tre mesi prima di compiere cent’anni: ma non venitemi a parlare di sesso debole. Mezzo secolo dietro una macchina fotografica, senza mai pentirsi, mezzo secolo passato a fotografare «la povertà perché sono nata povera, le donne perché sono una donna, la politica perché vivo nel mondo». Di quelle tre vocazioni, ad Abano Terme (fino all’8 dicembre) vi propone la seconda. Donne. Decine di donne, famose e sconosciute. Ma ci troverete inevitabilmente anche le altre due. Se dici All about Women, è come dire che parli di metà del mondo. Nella mostra curata da Marco Minuz le donne-mondo di Arnold galleggiano fra le pareti affrescate di Villa Bassi, un gioiello aristocratico cinquecentesco, ora museo comunale, in curioso contrasto con gli affreschi pedagogici sulle virtù coniugali. Eve fu sposata, anche nonna di numerosi nipoti. Di sé però parlava poco, nelle interviste. Raccontava molto, moltissimo, di loro, le altre, incontrate, frequentate, conosciute. Rispettate. Non mostrò a nessuno, mai, le foto nude di Joan Crawford, perché lei, che quando era tornata sobria se ne era pentita, la implorò di non farlo. Le giurò per questo «eterno amore e gratitudine». Ma quei primissimi piani dell’attrice ormai sul viale del tramonto mentre lotta ostinatamente con il makeup per potersi mostrare sul set del suo ultimo film da protagonista sono già abbastanza eloquenti. E Marilyn? Erano diventate grandi amiche. Si erano conosciute nel 1950, entrambe all’inizio delle rispettive carriere. Eve la riconobbe subito come «una grande manipolatrice», non ingenua, ma fragile. Corse al suo capezzale quando la salvarono da uno dei suoi, diciamo, eccessi di medicinali. La fotografò sensuale, fra lenzuola bianche, ma anche sul set di Nevada, ultimo travagliato film: deliziosa, ridente, in jeans, quasi una bambina. Non potevano essere più differenti. Eve, nata Cohen, figlia di un rabbino immigrato ucraino nella provincia americana, era minuta, più dolce che graziosa, precocemente canuta: Marlene Dietrich la chiamava “la ragazza coi capelli bianchi”. Fu la fotografia a corteggiare lei. Trovò lavoro come operaia in un laboratorio Kodak di sviluppo e stampa, ma a scattare non ci pensò mai fino a quando, sbarcata a New York dalla Pennsylvania come tante cowgirl, un fidanzato le regalò una Rolleicord da 40 dollari, la parente povera della Rolleiflex. Per non sprecarla (era una ragazza metodica e parsimoniosa) si iscrisse a un corso di sei settimane tenuto da un guru dell’immagine: Alexey Brodovitch, il direttore di Harper’s Bazaar. Genere fashion-glamour, insomma. Quando gli portò il suo primo saggio, lui rimase di stucco: un reportage nei peggiori bar di Harlem, ma anche qualche chiesa, dove organizzavano sfilate di vestiti fatti in casa, che adesso diremmo etno, tra modelle esuberanti, camerini squallidi e pubblico rumoroso. Nessun magazine americano volle pubblicare quella “moda da negri” (anche il servizio su Malcom X, troppo “partecipante”, fu rifiutato da Life). Lo fece, con entusiasmo, il britannico Picture Post, e le diede la copertina. Dunque, cominciò così. Poi continuò per 750 mila scatti, infaticabile, un servizio dopo l’altro, un libro dopo l’altro. Era l’età d’oro del rotocalco. Arnold ne fu una regina. Già nel 1951 fu ammessa nell’olimpo di Magnum, prima donna di quella misogina tavola rotonda del fotogiornalismo. Ne diventò un nume tutelare, adorata e riverita dai maschietti, nelle assemblee annuali, «come una nonna ebrea quando fa il suo ingresso in una riunione di famiglia». Elliott Erwitt le riconosceva «il massimo della grazia». Robert Capa era ammirato di come sapesse «fotografare sia le gambe della Dietrich che quelle dei raccoglitori di patate». «Se offri qualcosa di te, la gente ricambia», rispondeva tranquilla lei. Le donne, allora. Niente ideologismi. Anzi. Quella serie, Frantic Housewife, sulle casalinghe disperate inglesi (dal ’61 in poi visse a Londra), è un capolavoro di ironia autocritica sulla condizione della donna. Donne famose: non tutte le piacciono. Con Bruce Chatwin incontra Indira Gandhi per il Sunday Times: non ne torna entusiasta. Donne sconosciute, anzi nascoste: quel suo viaggio pieno di contrasti, dubbi e affetto, Oltre il velo, negli harem dell’Afghanistan e dell’Egitto, è del 1969. Donne lontane dalla storia, nella Cina dove avrebbe voluto vivere; donne in difficoltà, negli slum sudafricani o negli ospedali psichiatrici di Haiti dove le case farmaceutiche sperimentavano disinvoltamente i loro ansiolitici. Non cercate figurine consolatorie, nell’album di Eve. Cercate lei. La troverete ovunque. Anche in quel servizio struggente, realizzato in un ospedale di Long Island, I primi cinque minuti, quelli del neonato subito dopo il parto, i primi lunghissimi cinque minuti della nostra vita. Eve aveva appena abortito. Professionale nel lavoro, “dilettante nel cuore”. Fotografa donna e non donna fotografa. Nel 1976 Eve Arnold fece un libro retrospettivo, The Unretouched Woman. Era esattamente questo, una donna senza ritocco.