Robinson, 29 giugno 2019
Intervista a Paul Auster
Apre la porta con la penna in mano, una stilografica. È la prima cosa che mostra, sventolandola mentre saluta sorridente. Cosa sia diventata oggi New York poco importa. Paul Auster è un uomo del Novecento, un carismatico signore old fashioned indifferente alle lusinghe tecnologiche. Vive in una strada tranquilla e alberata, in una di quelle ville a schiera brownstone che sono la quintessenza del vintage di lusso di Brooklyn. Libri ovunque, tappeti, legno lucidato. A pochi passi c’è l’angolo immortalato nel film cult Smoke, diretto da Auster insieme al regista Wayne Wang a metà anni Novanta. Ma per lo scrittore «quella Brooklyn non esiste più». Parla lentamente, con una voce calda, profonda. Sembra un Robert Mitchum con l’immancabile sigaretta in mano: «È elettronica, col fumo ho chiuso quattro anni fa. Bevo anche molto meno. Voglio tirare avanti ancora per un po’», ride. La sua è una storia che più americana non si può: alti e bassi, lavori di ogni tipo per “sbarcare il lunario” (titolo di un suo bellissimo memoir), depressioni e rinascite. Una giostra di up and down che è poi la sostanza dei suoi libri in cui capitano incidenti, vincite milionarie, lutti inaspettati. Come nello sterminato 4321, oltre novecento pagine sulle avventure del giovane Archie Ferguson raccontate da diverse prospettive, a seconda delle traiettorie del destino. La lezione è semplice: «Bisogna vivere al meglio perché non sappiamo cosa ci può accadere». Il domani è imponderabile, «camminiamo dentro a un bosco, può andarci bene o male. Può capitarci di incrociare un assassino o l’amore della nostra vita». Come trascorre le sue giornate? «È bizzarro ora che il futuro si assottiglia sono stranamente felice. Forse non sono mai stato così felice. Mio padre è morto a sessantasei anni, io ne ho settantadue, vivo quello che viene come un regalo. Ho perso molti amici, so che la mia ora può arrivare da un momento all’altro. La gran parte del mio lavoro è alle spalle, da adesso in poi tutto quello che faccio è in più. Scrivo, cerco di stare con le persone a cui tengo. Voglio godermi questo tempo “extra”, ricavarne il maggior divertimento possibile». Un anno fa è morto Philip Roth, siete entrambi nati a Newark nel New Jersey, che ricordo ne ha? «Non eravamo amici stretti, ma ci incontravamo ogni tanto a qualche cena. Conservo ancora una foto che ci ritrae insieme a un party non molto tempo prima che morisse». Può mostrarcela? «Preferirei di no, è un momento privato, niente di speciale…». Indugia un po’, alla fine si decide. «Mi segua». Scendiamo al piano terra, nello studio. Sulla scrivania tanti fogli di appunti scritti a mano («non ho il computer, né il telefonino»). Auster sta lavorando a una biografia su Stephen Crane, l’autore del Segno rosso del coraggio, «il primo modernista americano, una vita straordinaria finita a soli ventotto anni». Si avvicina a uno scaffale e prende la foto, nascosta tra i libri: Philip Roth è seduto su una poltrona, magrissimo, l’aria stanca. Accanto a lui, in piedi, un bicchiere in mano, Auster gli sorride. Stanno chiacchierando tra loro. Torniamo al primo piano. Un lungo silenzio e poi la scintilla irresistibile di una coincidenza gli accende lo sguardo. A cosa sta pensando? «Una storia buffa. Quando ero piccolo mio padre mi portava in un posto di Newark in cui si mangiavano deliziosi hot dog bolliti. Si chiamava Sid’s Hotdogs. Era un luogo fumoso, c’era vapore ovunque. Parlando con Philip è venuto fuori che durante le scuole superiori aveva trovato un lavoretto proprio da Sid’s. Abbiamo immaginato che fosse stato lui a servirmi uno di quei buonissimi hot dog (sorride, ndr). Lui cameriere adolescente, io bambino. Tra noi passano quattordici anni». La vita è un lancio di dadi? «È imprevedibile, ma la nostra volontà ha un ruolo nel gioco». Lei ha rischiato di morire più di una volta… «C’è un evento che mi ha cambiato per sempre. Avevo quattordici anni quando un fulmine ha ucciso un mio amico. Camminavamo insieme, l’ho visto morire. All’inizio non avevo capito, continuavo ad accarezzargli le mani». Cosa ha significato quel trauma? «Ho compreso che a ciascuno di noi può accadere qualsiasi cosa in qualsiasi momento. Un’altra volta sono sopravvissuto a un incidente d’auto. Tornavamo dal Connecticut, ero alla guida, mia figlia era seduta dietro, mia moglie Siri accanto a me (la moglie è la scrittrice Siri Hustvedt, sposata nel 1981, ndr). Guidavo, ho svoltato a sinistra, una macchina ci è venuta addosso. Ricordo il fracasso dell’impatto, l’auto che girava su sé stessa. Fino a quando è apparso un uomo vestito di bianco, con la divisa da medico, camminava nella strada vuota verso di noi. Era un dottore egiziano, sbucato dal nulla. Un miracolo». Dunque è solo una questione di fortuna? «No, non siamo del tutto appesi al caso. Prendiamo decisioni, facciamo scelte, programmiamo. Non saremmo esseri umani senza un piano per il futuro. Viviamo pensando al domani, alla prossima settimana, al prossimo anno». ? continua f Quella Brooklyn del film “Smoke” e della mia “Trilogia di New York” non esiste più La gran parte del mio lavoro è alle spalle, da adesso in poi tutto quello che faccio è un extra
«In realtà è stato un percorso lungo. Dopo essermi laureato alla Columbia non sapevo cosa fare. Era il 1969, il mondo intorno a me era impazzito, c’era la guerra in Vietnam e non ero tra quelli che dovevano partire. Nell’estate del 1970 mi sono imbarcato su una nave, una petroliera». Scriveva già poesie, cosa l’ha spinta? «La paga era buona e non volevo finire chiuso in un ufficio. E poi ho sempre preferito la working class ad ambienti più borghesi. A bordo ero il più giovane, rifacevo i letti, pulivo i bagni. Ma quando mi ritiravo nella mia stanza potevo leggere. Non so quanti libri ho letto! Ho divorato Melville e Dickens. Poi un giorno ho perso il lavoro a causa di Elmer, un ragazzo del Texas che ha preso il mio posto. Una delle persone più stupide, grasse e strane che abbia mai conosciuto». Suo padre non condivideva le sue scelte, dai suoi libri viene fuori un rapporto complicato. «Non ha mai capito perché volessi fare lo scrittore, per lui era un’aspirazione pazza. Dopo il college ha tentato di convincermi a prendere un dottorato. Provai a informarmi, chiamai mio zio Allen Mandelbaum, un brillante traduttore di Dante, Omero e Virgilio, sposato con la sorella di mia madre». Ha tradotto molti poeti italiani, tra cui Montale e Ungaretti. «Fu lui a mettermi in contatto con Robert Fagles, grecista a Princeton. Fagles aveva letto i miei scritti, capì, mi disse: sei talentuoso, non rinchiuderti all’università. Lo ringrazierò per sempre». Negli anni ha compreso le ragioni della sfiducia paterna? «Oggi sono meno severo. Sono passati quarant’anni dalla morte di mio padre, lo sogno spesso. Ha avuto un’infanzia traumatica. Come può crescere un bambino la cui madre ha sparato al padre? Mia nonna aveva ucciso il marito in cucina riuscendo a scampare la galera. Vivevano nella povertà, non avevano i soldi per l’affitto, cambiavano casa ogni tre mesi». Ha mai parlato con suo padre di quelle difficoltà? «Un giorno mi raccontò una storia. Avrà avuto nove anni e già lavorava, consegnava i giornali. Aveva messo da parte un po’ di soldi, voleva comprarsi una bicicletta, era il suo sogno. Ma la madre gli sequestrò il salvadanaio. Non è orribile? Nonostante questo lui la giustificava, diceva che era giusto, che ognuno doveva contribuire al bilancio familiare. Nel tempo sarebbe riuscito a conquistare un po’ di benessere aprendo un negozio di elettrodomestici». Come il padre di Archie in “4321”. Che rapporto ha lei con il denaro? «Ho vissuto la maggior parte della vita senza e non pensavo ad altro che ai soldi. Il bello di averne un po’ è che ti danno la libertà di pensare ad altro». La sua casa è bella, ce l’ha fatta. «L’ho acquistata molto tempo fa, prima che i prezzi di Brooklyn lievitassero. Ci ho investito tutti i risparmi. Non sono un consumista, come vede (indica il suo look: jeans scuri, una sobria maglia blu, ndr). Dal benessere hanno forse tratto vantaggio i miei figli. Quando Sophie era piccola ho potuto pagarle le lezioni di canto (sorride, ndr)». Sophie è una cantante pop, è stato lei a incoraggiarla? «Era nel coro della scuola, avrà avuto otto anni, quando la sua insegnante ci consigliò di farle studiare canto. Aveva già una voce incredibile, un timbro spiritual. Ora è in tournée in Portogallo». Ascolta musica mentre scrive? «Preferisco il silenzio, la concentrazione. Mi sveglio ogni mattina tra le cinque e mezzo e le sei e mezzo. Per prima cosa faccio colazione in quel tavolo rosso dietro di lei. Bevo il mio tè, leggo i giornali e poi mi trasferisco sotto a lavorare. In genere vado avanti fino alle cinque del pomeriggio, concedendomi un break all’ora di pranzo. Scrivo molto lentamente, prima di tutto a mano, poi batto a macchina gli appunti (una Olympia del ’74, ndr), infine mi faccio aiutare per riversare il dattiloscritto al computer. A libro finito consegno i manoscritti alla New York Public Library, dove possono essere conservati alla giusta temperatura e chi vuole può consultarli». Quante pagine scrive al giorno? «Una, massimo due. Quando arrivo a tre è un miracolo. Per scrivere bisogna catturare il ritmo. È qualcosa di fisico, si avverte nel corpo». La sera fa vita sociale? «Poca, incontriamo qualche amico di tanto in tanto. Siri è una donna molto impegnata: scrive romanzi, insegna psichiatria all’università ed è un’artista. La sera siamo stanchi, così ci mettiamo sul divano a guardare il baseball o vecchi film sul canale Tcm, Turner Classic Movies. Credo che gli anni Trenta siano il periodo più interessante del cinema americano, adoro James Cagney, Edward G. Robinson, Joan Blondell». È in bianco e nero l’America che predilige? «Quei film di gangster e taxi driver erano il modo in cui l’America voleva immaginarsi dopo la Depressione, dare un po’ di speranza. Non so se quella sia la vera America, in fondo ogni narrazione americana è un fake». Anche New York è un fake? «New York è incredibile, cambia in continuazione. Ruvida e piena di energia. No, non mi ha stancato. Non potrebbe». © RIPRODUZIONE RISERVATA f Un evento mi ha cambiato per sempre Avevo quattordici anni e un fulmine ha ucciso un mio amico mentre camminavamo insieme g f Dopo essermi laureato non sapevo cosa fare Era il 1969, il mondo era impazzito, c’era la guerra in Vietnam. Mi sono imbarcato su una petroliera g f Ora che il futuro si assottiglia non sono mai stato così felice Mio padre è morto a 66 anni, io ne ho 72, vivo quello che viene come un regalo g k La sua Olympia La macchina da scrivere del 1974 con cui Paul Auster ribatte gli appunti scritti a mano dei suoi libri. Poi si fa aiutare per riversare il dattiloscritto al computer Dustin Aksland/ August/ Contrasto David Williams/ Redux/ contrasto David Williams/ Redux/ contrasto j Casa Auster Da sinistra: lo scrittore mentre sfoglia Robinson; alcuni dei suoi libri, tra cui volumi d’arte e fotografia; pagine stampate e un libro in bozze sulla sua scrivania: Auster usa la penna stilografica per la prima versione dei suoi scritti; ancora il suo tavolo di lavoro