Il Messaggero, 28 giugno 2019
Intervista a Vincenzo Boccia
Vincenzo Boccia, presidente di Confindustria, è nato a Salerno.
«Spero che alla fine prevalga il buon senso, perché in gioco ci sono la credibilità e la certezza del diritto nel nostro Paese. Stiamo davvero andando oltre». Vincenzo Boccia non si rassegna, anzi rincara sottolineando che «da questa vicenda potremmo uscire con conseguenze gravi per gli investimenti esteri nel nostro Paese cui non sarà facile rimediare».Presidente, come si è arrivati a tanto?
«Davvero non mi capacito. Quanto alla ex Ilva, era stato fatto un accordo con ArcelorMittal in virtù del quale loro avrebbero messo sul piatto 5 miliardi – peraltro nel Mezzogiorno – con l’idea di far diventare l’azienda la migliore acciaieria al mondo in termini di efficienza economica e di sostenibilità ambientale. In cambio noi avremmo dovuto garantire loro l’immunità per il tempo necessario a mettere l’impianto di Taranto in ordine secondo i protocolli».
Invece, ad accordo già in esecuzione vengono cambiate le regole in modo unilaterale.
«Esattamente. Invece di mettere i nuovi azionisti nelle condizioni di portare avanti un processo win win – per i lavoratori, per il Mezzogiorno, per il Paese, per gli investitori – serviamo loro su un piatto d’argento le ragioni per andare a produrre altrove, condannando alla chiusura una realtà aziendale per noi strategica e che dà lavoro a circa 20 mila persone tra diretti e indotto. Non mi sembra un bel biglietto da visita».
Potrei sbagliare, ma non è ciò che sta accadendo anche sulla questione della revisione delle tariffe autostradali?
«Sì, la vicenda è analoga. Non si può chiedere alle persone di investire in un’attività e poi cambiare le regole del gioco in piena corsa, soprattutto in modo unilaterale. Come ho detto, ne va della certezza del diritto e della credibilità del Paese».
Non le sembra che si stia andando oltre anche nel caso della revoca della concessione ad Autostrade? Per non dire delle ultime dichiarazioni del vicepremier Di Maio a proposito di un’Atlanta «decotta» e di un’Alitalia che finirebbe anch’essa «decotta» se la società dei Benetton dovesse entrare nel capitale della compagnia.
«Leggo con stupore le ultime su questa vicenda e mi pongo molte domande, ma preferisco non commentare le parole di Di Maio. Quel che mi sento di dire è che occorre uscire al più presto da questo pericoloso stato di rancore. Dobbiamo tornare a un’idea di Paese che guardi avanti e lasciare che la giustizia penale faccia il suo corso prima di assumere decisioni gravi. Un Paese che si limita a cavalcare le proprie ansie non ha futuro».
Non sarebbe opportuno a questo punto un’entrata in scena del premier Conte?
«Ne convengo. Il presidente del Consiglio dovrebbe chiarire a nome di tutto il governo la linea da tenere su questi delicati dossier, soprattutto per evitare che tra gli investitori istituzionali si consolidi l’idea che il nostro Paese non è affidabile».
Lei ha detto che è giunto il momento di aprire una stagione di confronto con il governo. Di fronte alle vicende di questi giorni, non converrebbe accelerare la richiesta di un tavolo allargato?
«Sicuro, ma i tempi non li decidiamo noi. Per di più in questo clima teso il confronto si annuncia difficilissimo. Non possiamo però esimerci di fronte alla prospettiva di perdere altre decine di migliaia di posti di lavoro. Sembra che non si rendano conto che questa infinita campagna elettorale rischia di bruciare anche le più solide ambizioni di crescita. E poi ci perdiamo in discussioni sul salario minimo...».
Ecco, appunto: il salario minimo. Da una parte si rischia di bruciare posti di lavoro con una leggerezza che lascia basiti, dall’altra si parla di salario minimo. Le sembra congruo?
«Posto che il salario minimo si tradurrebbe in un costo pesantissimo per le imprese, e mi sembra che questa non sia la direzione giusta per aiutare la crescita, chiunque capisce che questa nuova voce non può essere una variabile indipendente dalle trattative per i grandi contratti nazionali. Più che il salario minimo, occorrerebbe aumentare al più presto i salari dei lavoratori e agire sulla leva fiscale che oggi li mortifica».