il Fatto Quotidiano, 28 giugno 2019
Le leggi italiane fatte a pezzi
Mai come oggi la legalità è stata un concetto elastico, flessibile, trattabile, usa e getta a seconda degli interessi di chi la invoca o la teme. Tre casi concomitanti ci illuminano d’immenso.
1) Non è ancora finito il Carnevale di Rio per la grande vittoria olimpica di Milano e Cortina, ovviamente all’insegna del risparmio e della legalità, e già sui giornali si leggono appelli a mezza bocca alla Procura di Milano perché garantisca la stessa “tregua” che assicurò ai disinvolti appalti senza gara di Expo 2015, quando il pm competente Alfredo Robledo, si vide prima sfilare i fascicoli d’indagine dal suo capo e poi scaraventare dal Csm a Torino per evitare guai peggiori a Sala&C. Appelli che fanno sospettare intenzioni incompatibili col risparmio e la legalità, sennò perché tanta paura dei pm?
2) A Taranto i nuovi padroni dell’Ilva, gl’indiani di Arcelor Mittal, scelti a suo tempo dall’ottimo Calenda per rimpiazzare i Riva e i commissari, fanno sapere che senza l’immunità penale – gentilmente concessa dagli ottimi Renzi e Calenda e revocata dal cattivo Di Maio – chiuderanno lo stabilimento a settembre e chi s’è visto s’è visto. Anche lì, una multinazionale che s’impegna a rilevare uno stabilimento italiano secondo le leggi del Paese che lo ospita in cambio di copiosi guadagni e poi minaccia di andarsene se non gli viene assicurata l’impunità in caso di reati prim’ancora di commetterli (si spera), dà l’idea di non avere alcuna intenzione di osservare il Codice penale. E nessuno si scandalizza, come del resto nessuno fece un plissé quando il Pd regalò ai commissari di governo la licenza di delinquere, in quel caso di uccidere: l’unico scandalo, a leggere i giornaloni, è perché il governo Conte l’ha finalmente revocata.
3) Dopo 14 giorni di navigazione nel Mediterraneo, approda sulle coste italiane la nave SeaWatch-3, di proprietà di un’ong privata tedesca ma battente bandiera olandese, carica di 42 profughi raccolti in acque libiche. In origine erano 52, ma 10 – quelli in pericolo – sono già sbarcati in Italia il 15 giugno. Il natante, guidato dalla capitana tedesca Carola Rackete, ha violato una serie innumerevole di norme italiane e internazionali, il che non le verrebbe consentito da alcuno Stato di diritto del mondo libero. Nel 2017 non ha firmato il Codice di autoregolamentazione del ministro dell’Interno Pd Marco Minniti, regolarmente siglato da altre ong, per farla finita col Far West nel Mediterraneo (migliaia di sbarchi e di morti). S’è addentrata nella zona di ricerca e soccorso libica, competenza della Guardia costiera di Tripoli.
Avrebbe dovuto far rotta sul porto sicuro più vicino: cioè in Tunisia o a Malta. Invece ha scientemente deciso di proseguire fino a Lampedusa, per creare l’ennesimo incidente in polemica con le politiche migratorie del governo italiano, secondo il copione collaudato da altre navi della stessa Ong (una saga a puntate: Sea Watch-1, 2, 3 e così via). Il governo ha negato il permesso di ingresso nelle acque territoriali e poi di sbarco nel porto. La capitana Carola, subito idolatrata da una sinistra a corto di idee e simboli, se n’è infischiata. Prima ha tentato di far annullare l’alt dal Tar: ricorso respinto. Poi di farsi autorizzare in via provvisoria e urgente dalla Corte dei diritti dell’uomo di Strasburgo. Che però le ha dato torto, per la seconda volta (il diritto allo sbarco in Italia era già stato negato il 29 gennaio a un’altra Sea Watch con 49 migranti): il provvedimento provvisorio di sbarco, in deroga agli ordini di un governo, può essere adottato solo “nei casi eccezionali in cui i richiedenti sarebbero esposti – in assenza di tali misure – a un vero e proprio rischio di danni irreparabili”. E fortunatamente non è questa la situazione degli ospiti della SeaWatch-3 dopo la discesa delle tre famiglie con bimbi e donne incinte. Certo – precisa la Corte – il governo deve “continuare a fornire tutta l’assistenza necessaria alle persone in situazione di vulnerabilità per età o stato di salute”. Ma non esiste un diritto di accesso alle acque territoriali di uno Stato in violazione delle sue norme, salvo appunto per gravi motivi di salute, senza i quali la nave che ha compiuto il salvataggio (in questo caso, un’estensione del territorio olandese) è essa stessa un luogo sicuro per i naufraghi. A quel punto, siccome il tribunale italiano e quello comunitario le han dato torto, la capitana ha calpestato entrambe le sentenze. E l’ordine di fermarsi della Guardia Costiera e di Finanza. E s’è affacciata su Lampedusa sventolando una causa di forza maggiore già esclusa da Strasburgo: la salute dei migranti dopo 14 giorni di navigazione (che sarebbero stati molti meno se fosse andata dove doveva: Tunisia o Malta).
Quel che pensiamo su questa ennesima guerra delle opposte propagande fra alcune Ong e il governo italiano lo scriviamo da sempre: sulla pelle dei migranti, usati come ostaggi e scudi umani, si sta giocando una lunga, cinica e ipocrita gara tutta politica. Anche e soprattutto nella cosiddetta Europa, che sta a guardare. Sul piano umanitario, è fin troppo evidente che – stando così le cose – quei 42 disperati devono sbarcare in Italia, com’è sempre avvenuto, anche sotto il ministro della Cattiveria di un governo tacciato di fascismo e razzismo da chi in casa propria fa ben di peggio. Ma nessuno ci venga a raccontare che da una parte ci sono i buoni (l’eroica capitana) e dall’altra i cattivi (gli italiani xenofobi). O che un governo non ha il diritto-dovere di proteggere i confini da chi vorrebbe decidere le sue politiche migratorie dalla tolda di una nave tedesca con bandierina olandese. E di indicare l’unica via d’accesso all’Italia per chi ha diritto all’asilo: quella dei corridoi umanitari. Cioè, parlando con pardon, la via legale.