il Giornale, 28 giugno 2019
Il montacarichi di Dard
Nessun plagio, per carità, soltanto una coincidenza, una piacevole coincidenza. Nel 1956 Noël Calef, scrittore nato in Bulgaria, ma francese a tutti gli effetti (compreso quello, pessimo, di essere internato a Drancy durante la Seconda guerra mondiale e poi deportato in Italia), pubblica da Fayard uno dei suoi sei romanzi polizieschi, Ascenseur pour l’échafaud, cioè Ascensore per il patibolo, che due anni dopo Louis Malle porterà alla gloria adattandolo per il cinema nel suo primo lungometraggio omonimo, fra gli iniziali vagiti della Nouvelle Vague. È la storia di cui due amanti, Julien e Florence, i quali pianificano l’assassinio del marito di lei, ma, come da titolo, l’ascensore diventa il mezzo per raggiungere il patibolo.
E nel 1961 Frédéric Dard, il creatore del celebre commissario San-Antonio della polizia di Parigi, pubblica da Fleuve Noir Le monte-charge, cioè Il montacarichi, che un anno dopo Marcel Bluwal porta nelle sale. È la storia di due quasi amanti, e anche qui entra in gioco il marito di lei, ma... Ma è doveroso fermarsi, perché Il montacarichi torna ora in edizione italiana da Rizzoli (pagg. 139, euro 17, traduzione di Elena Cappellini) dopo l’uscita del ’66 dalla milanese Rialta, e non è il caso di rovinare al lettore il gusto di un congegno narrativo perfetto e sorprendentemente plausibile, quasi più inglese, alla Agatha Christie, che francese. Detto en passant che l’omicidio mascherato da suicidio non è mai un buon alibi (che ci sia di mezzo un ascensore o un montacarichi...). E ricordato che nel confronto a distanza tra le femmes fatales dei due film, rispettivamente Jeanne Moreau per Malle e Lea Massari per Bluwal, la gara di fascino dà come esito un ex aequo ad altissimi livelli, occorre aggiungere che Il montacarichi serve a Dard per muovere su e giù uno dei suoi pezzi pregiati: la più o meno democratica distribuzione delle colpe. Come in Gli scellerati del 1960, uscito per la prima volta in italiano l’anno scorso, sempre per Rizzoli (e sempre tradotto da Elena Cappellini), anche qui assistiamo a un concorso di responsabilità fra chi si macchia di un delitto e chi contribuisce a nasconderlo.
È la sera di Natale (di Noël, come Calef...) quando il trentenne Albert torna dopo sei anni a Levallois, alle porte di Parigi. L’unico suo bagaglio è il peso insopportabile di un crimine, un peso che tenta di alleviare riassaporando i rumori del suo quartiere e gli odori della casa dove viveva con la madre che morendo l’ha lasciato orfano e privo dell’unico certo punto di riferimento. In un ristorante, l’uomo conosce per caso una bellissima donna poco più giovane di lui, Marthe, con la sua bambina. Non ne nasce un vero corteggiamento, ma la consonanza di due solitudini. E non è per consumare, ma per non consumarsi in un tedio senza fondo che i due si raccontano reciprocamente un po’ delle loro esistenze. Un po’, quanto basta per tentare di avventurarsi su un rapporto che, come la superficie ghiacciata di un lago, potrebbe spezzarsi da un momento all’altro, e farli affogare. Marthe abita sopra la legatoria di cui titolare è suo marito che, lei afferma, la tradisce impunemente. Per salire in casa occorre usare il montacarichi...
Nelle ventiquattro ore circa in cui si sviluppa il dramma, la telecamera di Dard non si stacca un attimo da Albert, il quale narra in prima persona usando il tempo passato, quasi a voler punirsi prima che a farlo sia la Giustizia. Perché se è vero, come dice Marthe, che «il pericolo rende forti», è ancor più vero che, come pensa lui, «la realtà ha una pazienza infinita». Anche se a volte è lenta come un montacarichi.