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 2019  giugno 28 Venerdì calendario

La rivoluzione di Sklovskij

«Non sono riuscito a cambiare niente» constatò nel 1922 Victor Sklovskij, in fuga dalla Russia. Se guardava indietro, l’anno terribile del 1917, lo sfascio dell’esercito russo e la Rivoluzione, provava un senso di colpa «per aver combattuto in Galizia, nel Dnpr, per essersi occupato di mezzi blindati a Pietroburgo». Apparteneva a una generazione e a un Paese in cui l’elemento umano, il gesto esemplare quanto le personalità esemplari, avevano contato molto e fra anarchia e socialismo rivoluzionario avevano creato una figura di cospiratore, di teorico del pensiero e dell’azione, che il coevo e minoritario materialismo dialettico di matrice marxista-leninista non era riuscito a ingabbiare nelle ferree leggi del determinismo storico. Adesso però si sorprendeva a constatare che avrebbe dovuto «lasciarsi scivolare accanto la rivoluzione. Quando cadi come una pietra non bisogna pensare, e se pensi non bisogna cadere. Ho confuso due mestieri. Ciò che muoveva gli altri era al di fuori di loro. Io sono soltanto una pietra che cade. Non avevo visto i fatti d’ottobre, non avevo visto l’esplosione, se mai c’era stata. E se c’era stata, ero finito dritto nel cratere».
Dentro il «cratere» della Rivoluzione d’Ottobre, «la pietra» Sklovskij aveva cercato di rimanere immobile, una volta tornato a Mosca dal fronte. Indossava un impermeabile, camicia da marinaio e cappello dell’Armata Rossa, si ostinava a pensare che ci fosse un futuro per la sua vocazione di critico letterario, era ricercato dalla Ceka in quanto «socialrivoluzionario di destra». Un compagno l’aveva aiutato a nascondersi in un archivio cittadino: «Se stanotte ci sarà una perquisizione, tu fruscia e di’ che sei carta» era stato il consiglio. Da pietra a foglio, considerate le sue ambizioni di scrittore, era pur sempre un passo avanti...
Nato nel 1893, allo scoppio della Prima guerra mondiale Sklovskij aveva vent’anni, ventiquattro nell’anno in cui da quella guerra la Russia aveva pensato di uscirsene con una pace separata e una rivoluzione che fosse insieme sociale, economica e politica, monarchia costituzionale, repubblica parlamentare, repubblica dei soviet, una guerra civile, di fatto il caos morale e istituzionale. Da militare e da combattente, si era abituato ad arringare i soldati che non volevano più imbracciare i fucili: «Ho parlato con disperata energia del diritto che la rivoluzione ha sulla nostra vita. Allora non disprezzavo ancora, come adesso, le parole». «Allora» era ancora il tempo dell’illusione, l’idea che fosse ancora possibile fare la storia: «È vana tutta la nostra finezza e lungimiranza politica. Se invece di provare a fare la storia, provassimo semplicemente a considerarci responsabili dei singoli atti che la compongono, forse gli esiti non sarebbero così grotteschi. Non la storia bisogna fare, ma la propria biografia».
Viaggio sentimentale (Adelphi, pagg. 346, euro 22, traduzione di Mario Caramitti) è proprio l’autobiografia scritta a nemmeno trent’anni da chi si considera «un narratore professionista» e un rivoluzionario deluso: «La mia storia d’amore con la rivoluzione è profondamente infelice. Negli allevamenti di cavalli ci sono stalloni che chiamano ruffiani. Il ruffiano monta sulla giumenta, lei prima si rifiuta e scalcia, poi inizia a concedersi. A quel punto il ruffiano viene trascinato via e fanno entrare il vero riproduttore. Noi socialisti abbiamo scaldato la Russia per i bolscevichi». Viaggio sentimentale occhieggia nel titolo al libro omonimo di Sterne, lo scrittore inglese che Sklovskij aveva resuscitato in Russia, il romanzo come divagazione erratica, personale, per nulla imparziale, fatti e memoria, visione e coscienza.
Rispetto alla grande tradizione letteraria ottocentesca, Sklovskij aveva cominciato a formulare, già alla vigilia della guerra, una teoria per cui la letteratura non riguardava le sue implicazioni, i suoi contenuti filosofici, psicologici, biografici, ma il metodo o «artificio» proprio e tipico di quest’arte, il fatto estetico come forma, nient’altro che forma. Con Jakobson, Jakubinskij, Brik, sulla scorta di poeti come Belij, di linguisti come Veselovskij, aveva fatto propria anche la lezione del futurismo come reazione al simbolismo e in nome della «parola autosufficiente»: un’opera letteraria era «la somma dei suoi artifici stilistici» e basta, la sua sostanza, le parole, non le immagini e le emozioni. Era lo «straniamento» ciò che contava e sotto questo profilo Viaggio sentimentale è la summa di ciò che Sklovskij da critico teorizzava, legami sintattici logici ridotti al minimo, frasi essenziali e brevi, noncuranza ironica e insieme tragica. È la rivoluzione e la guerra civile raccontate a freddo pur se vissute nel calore incandescente degli orrori che l’una e l’altra scatenano, la Russia meridionale che sprofonda nello scontro fra «rossi» e «bianchi», il disordine vertiginoso del fronte orientale dove persiani, curdi, assiri e armeni sono uniti solo dall’odio reciproco, i pogrom antisemiti, la violenza allo stato belluino: «Quando i nostri facevano irruzione in un villaggio, le donne, per salvarsi dallo stupro, si spalmavano di feci il viso, il petto e il corpo dalla vita alle ginocchia. Ma i soldati le pulivano con degli stracci e le violentavano».
Tra un combattimento, un mancato arresto, una medaglia al valore, un’attività da cospiratore, Sklovskij viaggia su e giù per la Russia sui tetti o sui pavimenti dei treni, divide lo zucchero che miracolosamente si porta dietro con i «Serapionidi», la confraternita letteraria unita nella fede dell’autonomia dell’arte e nella libertà dello scrittore. Insieme con Zamjatin, il più giovane Sklovskij ne è uno dei referenti: sono tutti ventenni, prendono il loro nome da un personaggio di un racconto di Hofmann, vorrebbero far rivivere la narrativa russa, si illudono di poter fare a meno della politica. Sarà la politica a fare a meno di loro... Nel 1923, approfittando di una parziale amnistia concessa dal governo sovietico, Sklovskij rientrerà in Russia dalla Germania dove intanto è uscito Viaggio sentimentale. Alla fine degli anni Venti, quando il formalismo viene messo al bando in nome del realismo socialista, mise di nuovo a frutto quelle doti di inafferrabilità, il sopravvivere negli spazi vuoti, negli intervalli e nelle inerzie della storia come aveva fatto in quegli anni terribili del ’14-18. Si fece di nuovo «carta», sopravvisse allo stalinismo, alla Seconda guerra mondiale e poi al disgelo, morì nel 1984.
Nel 1922, quando aveva la Ceka alle calcagna e dopo essere stato di nuovo arrestato, aveva scritto: «Mi sono costituito spontaneamente. Testimoniare contro i miei vecchi compagni non posso. Il mio mestiere è un altro». Gli restò fedele per tutta la vita.