il Giornale, 28 giugno 2019
Com’è nata l’idea del muro tra Messico e Stati Uniti
da Tijuana (Messico)
Sul lato dei dannati è una tavola di ferro sagomata a linee orizzontali, arancione sporco, alta due metri. I clandestini che la superano finiscono nella «terra di nessuno», una lingua di sabbia chiusa dalla vera recinzione, più alta, una cintura di pilastri in acciaio, tra cui infilare un braccio e intravedere un lembo di Stati Uniti, sotto l’occhio di telecamere e vigilantes americani armati.
«El muro de la vergüenza», della vergogna come lo schifano i messicani, divide per un terzo gli oltre tremila e cento chilometri del confine geografico tra Stati Uniti e Messico. Inizia qui a Tijuana che, come tutte le città di frontiere ha due facce: una molto yanquis, ordinata, pulita e militarizzata e un’altra molto latina, piena di postriboli e agghiaccianti motel. Ma attraversare la frontiera, non è soltanto una questione per clandestini, spacciatori e turisti, è la quotidianità dei frontaleros, residenti in America che lavorano in terra messicana. Sul trenino che da San Diego porta al confine c’è chi non ha l’auto e si affida alla rotaia, ma da quando c’è Donald Trump alla Casa Bianca serpeggia la paura di essere «indesiderati» e non poter più rientrare in Usa.
I lavori iniziarono nel 1990 sotto la presidenza di George Bush Sr, che, approvando la legge «Prevenzione e detenzione» volle lanciare un chiaro messaggio ai clandestini che ogni giorno varcavano illegalmente il confine, risalendo dal Sud America, dopo settimane di marcia. In tre anni furono costruiti 23 chilometri, poi nel 1994 il progetto passò a Bill Clinton che estese il muro di altri 90 chilometri. A quasi trent’anni dai primi lavori, il muro è una barriera spezzettata tra California, Arizona, New Messico e Texas che super di poco i mille chilometri. Nella maggior parte dei suoi 3.140 km il «Muro di Tijuana» è un semplice reticolato di un metro e mezzo, come quello che i contadini usano per non fare scappare le vacche. Altri pezzi in lamiera, più difensiva, puntellano il confine in Texas per respingere qualche narcotrafficante. Il resto circa duemila chilometri è tutto da edificare, se si troveranno i soldi, un miliardo di dollari, nelle insanguinate casse statunitensi che già per supplire alla mancanza di una barriera fisica, applicano costosissimi satelliti spia e sensori nel terreno.
In verità l’esistenza del muro ha lo zampino dell’Europa. Esiste per colpa dei servizi segreti di Sua Maestà britannica, secondo una storia, poco conosciuta secondo il Washington Post. Era il 1917, culmine della Prima Guerra Mondiale e l’intelligence inglese intercettò uno strano telegramma proveniente da Berlino e indirizzato all’ambasciatore tedesco in Messico Heinrich von Eckardt. Era il cosiddetto «telegramma Zimmermann», dal nome dell’autore, Arthur Zimmermann, ministro degli Esteri germanico. Costui era famoso per le sue innumerevoli idee «geniali». Si deve a lui, infatti, la brillante operazione di far tornare Vladimir Lenin dalla Svizzera in Russia su un vagone piombato, una mossa le cui conseguenze disastrose non sono ancora state superate. Il ministro, preoccupato dall’eventualità che gli Stati Uniti entrassero in guerra a fianco di Francesi e Britannici, pensò di poter evitare questa sciagurata possibilità, distraendo gli americani su altra questione, come provocare una guerra tra Washington e Città del Messico. Così il 16 gennaio del 1917 Zimmermann spedì a von Eckardt il telegramma con i termini di un’interessante proposta per il governo messicano: se l’America avesse dichiarato guerra alla Germania, il Messico avrebbe dovuto farlo a sua volta nei riguardi degli Stati Uniti; la Germania, sicura vincitrice del conflitto, avrebbe ricompensato il Messico con ingenti aiuti finanziari e restituendo i territori che gli yankee avevano vinto con la Guerra del 1846-1848.
A quel tempo Germania e Stati Uniti dialogavano per evitare lo scontro. Il presidente americano Woodrow Wilson aveva generosamente autorizzato Berlino (anche per spiarli) a colloquiare con la propria ambasciata a Washington utilizzando il cavo diplomatico americano. Zimmermann approfittò dell’opportunità e spedì il telegramma a Città del Messico via Washington. Gli americani non si accorsero di nulla, gli inglesi, invece, lo notarono, mentre spiavano il traffico. Fu l’ammiraglio William Hall a intercettarlo. I britannici si resero conto di avere in mano l’asso affinché Wilson dichiarasse guerra ai tedeschi. L’intelligence di Londra, però non poteva ammettere di spiare i cugini americani, quindi fece credere a Washington di averne una copia in Messico.
Il 23 febbraio del 1917, il ministro degli Esteri britannico Arthur James Balfour consegnò una copia del telegramma all’ambasciata americana a Londra. Il presidente Wilson, però, sospettava fosse una sporca mossa dei perfidi inglesi. Wilson passò il documento alla stampa, credendo che la Germania avrebbe potuto ancora salvarsi, dichiarando quel documento una provocazione di Londra. Colpo di scena, fu lo stesso Zimmermann a confermare l’autenticità del telegramma e la situazione precipitò nella dichiarazione di guerra anche per l’attacco dei sommergibili tedeschi a quelli americani alle Isole Britanniche. Così, dopo le due guerre, l’idea del muro per difendersi, rimase nella testa degli americani.