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 2019  giugno 28 Venerdì calendario

In provincia stanno sparendo i punti nascita

Per sconfiggere la denatalità servono almeno tre cose: due genitori che facciano bambini, i bambini, e i medici che li fanno nascere e, quando serve, li curano. Questa equazione a tre incognite è innestata in un sistema anche più difficile da districare, che è il sistema sanitario, attualmente sotto scacco a causa della mancanza di medici. Il ministro Trenta ha confermato che per tamponare questa drammatica carenza, che minaccia di peggiorare in vista delle ferie estive, negli ospedali del Molise arriveranno i medici militari. Ma per il momento è come tappare una diga rotta con le dita, e infatti è notizia di ieri che sarà chiuso il “punto nascita” di Termoli, con un provvedimento firmato dal commissario alla Sanità per il Molise, Angelo Giustini. Il 30 giugno sarà l’ultimo giorno utile per i ricoveri di donne in gravidanza, ci sarà posto per gli ultimi nati fino al 7 luglio; poi le puerpere dovranno cambiare meta e trovare un’altra struttura cui rivolgersi. L’ospedale più vicino è a Vasto, in Abruzzo, a oltre trenta chilometri di distanza. Il ministro dell’Istruzione, Marco Bussetti, ha annunciato per l’anno accademico 2019/20 l’aumento dei posti per le immatricolazioni ai corsi di laurea di Medicina e Odontoiatria (saranno 11.568 per Medicina contro i 9.779 dell’anno scorso, 1.133, da 1.096, per Odontoiatria), e soprattutto ha ribadito l’incremento delle risorse per le borse di specializzazione (nel 2017, per 7.700 posti disponibili si presentarono in 17mila: due su tre rimasero fuori dalla formazione post-laurea, senza poter esercitare): è un intervento già più strutturato e fa ben sperare, ma non è che da domani avremo un sacco di medici, e quindi i punti nascita continuano a morire come mosche. Nel 2011 erano 595, nel 2017 erano 561, la metà dei quali non superava quota mille parti all’anno, ma ci nascevano due bambini su tre (179 di questi devono ancora essere accorpati). Nelle strutture che accolgono meno di cinquecento parti annui (nel 2017 ne sarebbero rimaste 82 sulle 196 contate nel 2010), ha luogo circa il 6 per cento dei parti. Ben oltre le polemiche, quindi, i problemi sono due: la denatalità e, di nuovo, la carenza di personale qualificato. Per mantenere aperti i centri bisogna fare più figli, così da superare le cinquecento nascite e garantire il livello di sicurezza e qualità. Poi serve qualcuno che i bambini li sappia curare: la Società italiana di pediatria prevede però che entro il 2025, per colpa del turnover squilibrato con una media di 700 pensionamenti l’anno e 370 specializzandi in entrata, i medici potrebbero ridursi dai circa 13mila pediatri del 2013 a poco più di 8mila. Si è detto delle cinquecento nascite minime: il numero viene dalla riorganizzazione dei punti nascita, promossa nel 2010, in base ai volumi di attività. Fu un accordo tra il ministero della Salute, allora il titolare del dicastero era Ferruccio Fazio, e le Regioni: prevedeva di chiudere i punti nascita in cui vengono al mondo meno di cinquecento bambini l’anno e di accorpare quelli che non superano i mille.

RESISTENZE E MINACCE
Ma come spesso capita, tra resistenze delle Regioni e intoppi da campanile, la messa in pratica dell’accordo zoppicò, mettendo il ministro Lorenzin, nel 2014, nelle condizioni di dover emettere un decreto integrativo, nel quale si stabiliva che perché un punto nascita abbia di che campare bisogna che conti almeno cinquecento parti all’anno, che ci sia la disponibilità ventiquattr’ore su ventiquattro di ginecologi, pediatri, neonatologi e ostetriche, nonché la presenza a corto raggio di un servizio di terapia intensiva neonatale e subintensiva per le madri. Quello di Termoli non solo non rispettava questi fattori, ma secondo il ministro Grillo non aveva nemmeno «i requisiti di sicurezza»: «Si sottolinea che il Pn di Termoli, oltre ad alcuni disallineamenti rispetto agli standard richiesti non ha alcuna condizione di disagio orografico», si legge nella nota del dicastero, «attestato dalla bassa fidelizzazione delle donne dei Comuni del suo bacino di utenza, che da anni scelgono di partorire in altri punti nascita, anche fuori Regione». Il sindaco della città, Francesco Roberti, punta sulle minacce: «Siamo pronti a formulare le dimissioni di 80 sindaci», ha detto ieri, «Per il ministro Grillo e il Mef il Molise non esiste, tranne quando ci chiedono l’acqua per la Campania, di prenderci i rifiuti di Napoli, di accogliere i migranti, di superare gap energetici». Invece, inaspettatamente d’accordo con il ministro Grillo, e lo erano già nel 2010, sono i rappresentanti della Società di ginecologia e ostetricia, della Società italiana di neonatologia e quella di pediatria, i quali hanno sempre sostenuto che «la nascita in un ospedale di piccole dimensioni può rappresentare un pericolo per le donne e i nascituri, in caso di rare, ma potenzialmente letali, situazioni di emergenza». Le polemiche e le resistenze, insomma, sarebbero inutili: nel 2015, l’allora presidente della società italiana di Neonatologia, Costantino Romagnoli, segnalò che «questo discorso non va fatto oggi perché le risorse sono scarse, ma avrebbe dovuto essere fatto molti anni fa, quando sono stati moltiplicati i centri nascita per motivi politici e non per ottimizzare l’assistenza al parto». Il problema, insomma, non sarebbero i centri piccoli, ma c’è da chiedersi «che cosa ne sarà dei centri grandi, che corrono il rischio di chiudere per mancanza di personale qualificato».