Come Salvini.
«Io penso a me. Mi rivolgo a un pubblico che una certa parte della politica giudica ignorante, non ha potuto studiare forse, fa le pulizie negli autogrill o mette l’insalata nelle buste del supermercato ma è quello che mantiene la baracca».
La certa parte politica è la sinistra?
«Beh, certi professoroni della sinistra sicuramente. Guardano questa gente dall’alto in basso».
Roberto Poletti, 48 anni, è diventato il simbolo dell’occupazione sovranista della Rai, di TeleSalvini. Ex direttore di Radio Padania, poi parlamentare dei Verdi, biografo del leader della Lega, è sbarcato a UnoMattina Estate sollevando un’onda di polemiche. Per il momento sta vincendo lui. Il programma fa il 18,2 per cento di share, quasi 2 punti in più rispetto allo scorso anno. Probabilmente proseguirà la sua avventura anche in inverno.
Lei è un conduttore sovranista?
«Non so cosa voglia dire sovranismo. Io sono me stesso».
Sovranista vuol dire amico di Salvini, vuol dire che per anni lei è stato l’inviato di punta di "Quinta colonna", la trasmissione populista di Del Debbio.
«Io e Salvini abbiamo cominciato insieme a Radio Padania. Eravamo ragazzi e siamo diventati amici. Amici che non parlano di Rai. Io gli chiedo come va, lo sento, ma non gli ho mai posto il problema di come stavo io. Del programma in Rai ho discusso solo con la direttrice Teresa De Santis. Sono un giornalista professionista da 25 anni, ho una rete di relazioni, non sono stato pescato dal buco, ma del lavoro ho parlato solo con lei».
Vota Lega?
«Mi sono trasferito da poco in un’altra città e non ho ritirato la tessera elettorale. Sia il 4 marzo sia il 26 maggio. Non ho votato».
Avrebbe votato l’amico Salvini?
«Non lo so».
Ma è stato scelto per parlare al 34 per cento che vota Lega, giusto?
«Non penso di rappresentare solo quel pubblico. Parlo un linguaggio semplice, domande chiare risposte chiare, se non capisco faccio ripetere e non voglio educare la gente che qualcuno considera ignorante».
E la funzione educativa della televisione? E la complessità?
«Ma va. In Rai c’è già qualcun altro che se ne occupa. La Rai è plurale e deve parlare con tutti».
Cos’è la pancia del Paese?
«Quelli che ci danno da mangiare. Magari non usano un italiano forbito ma senza di loro il Paese si ferma. Ero il volto delle piazze a Quinta colonna, ho girato tutta l’Italia e ho visto che i politici parlavano un linguaggio che la gente non capiva. Nelle prime trasmissioni, quando mi collegavo dal Sud, Salvini veniva mandato a quel paese. Poi sono cominciati gli applausi. Salvini si faceva capire, magari non diceva cose eccezionali ma entrava nel cuore delle persone. E lo stesso vale per i 5 stelle. Mi auguro che ora mantengano le promesse perché gli italiani non li devi fregare e fanno presto a cambiare idea».
E la sinistra vista dalle piazze?
«Parlava un’altra lingua, tutta sua, di cui non si capiva nulla. Ma mi sembra che ora si stiano adeguando».
Una volta a Radio Padania disse a un migrante che le stava sui co…ni. Gli stranieri le stanno lì?
«I migranti non mi stanno sui co…ni. Sono amico di chiunque. Quell’ascoltatore era molesto, avrei risposto nello stesso modo a un leghista, a un italiano. Era un microfono aperto comunque. Alla Rai non userei mai quel linguaggio».
Porti chiusi o porti aperti?
«Non è un problema mio. Paghiamo delle persone per dare delle risposte. Non faccio il politico. Leggo, mi informo e ho fatto politica. Pensavo di poter cambiare il mondo ma ho capito che si poteva fare di più in tv aiutando un disoccupato a trovare un lavoro, segnalando una strada con le buche, tenendo compagnia alle persone».
C’era bisogno di prendere un esterno con tanti giornalisti Rai?
«Arriva il mostro sovranista, dicevano. Temevo che in azienda fossero un po’ prevenuti dopo la campagna di stampa contro di me. Invece siamo una squadra, io mi sento protetto, tutti danno il massimo e chi pensa che alla Rai sia pieno di gente che non fa niente non conosce la realtà. Quando si critica Viale Mazzini non si tiene conto che nel mucchio ci finiscono anche persone che lavorano duro».