La Stampa, 28 giugno 2019
Il giorno in cui Gaetano Bresci uccise re Umberto I
Il 29 luglio 1900 è il giorno in cui, a Monza, l’anarchico Gaetano Bresci uccise con tre colpi di pistola il re d’Italia Umberto I. A quel tragico evento Marco Albeltaro dedica il suo nuovo libro (29 luglio 1900, Laterza, pp. VIII-150, € 18): un suggestivo itinerario nella nostra storia alla svolta tra Ottocento e Novecento, attraverso una serie di cerchi concentrici che si dipartono proprio da quella data per investire prima il contesto italiano, poi il modo in cui l’intero Occidente euroamericano, il nostro mondo di allora, visse quello che una canzone anarchica definì «il fosco fin del secolo morente». La tecnica narrativa è avvincente ed efficace; con qualche indulgenza verso elementi che appartengono più alla fiction che alla saggistica storica, Albeltaro ci restituisce il profilo, non solo umano, dei due protagonisti. Il re e il suo assassino vengono seguiti in tutti i momenti di una giornata che per uno dei due sarà l’ultima della vita e per l’altro l’inizio di una dolorosa espiazione.
Umberto I, al risveglio, si tuffò nella routine di una quotidianità che prevedeva la colazione, il bagno, la passeggiata a cavallo, la visita – più o meno furtiva - alla sua amante storica, la duchessa Eugenia Litta Visconti, e poi una serie di incombenze legate al suo ruolo. Il re era soprattutto un simbolo. Lo Stato liberale nato dal Risorgimento aveva un disperato bisogno di «inventare una tradizione», di proporre ai cittadini del nuovo Regno un «patto di memoria» che li aiutasse a sanare le fratture della guerra civile, del brigantaggio meridionale, dell’opposizione della Chiesa cattolica, delle altre fratture che attraversavano la nostra fragile unità nazionale.
Nuova mitologia nazionale
La scuola, l’esercito, i prefetti furono tra i principali strumenti istituzionali di quel tentativo di «fare gli italiani»; sulla Monarchia se ne riversarono invece gli aspetti simbolici. La Marcia reale, intonata in ogni angolo d’Italia,il Canto degli Italiani e altre canzoni del Risorgimento si innestarono nel tessuto popolare con una grande forza evocativa. Intorno a casa Savoia e al culto dei padri fondatori (Cavour, Vittorio Emanuele II, Garibaldi, Mazzini) si costruirono i primi monumenti pubblici, la memoria di pietra che ogni Stato edifica a beneficio della propria legittimazione. Si delineò una nuova mitologia nazionale grazie alla diffusione capillare delle immagini della «Famiglia Reale», alle cerimonie legate alle nascite, ai matrimoni, ai funerali dei suoi membri, a un universo propagandistico a cui attinse largamente la proposta di religione civile dell’Italia liberale.
Dopo il «Re galantuomo», Vittorio Emanuele II, a Umberto I toccò il ruolo del «Re buono». Il nuovo sovrano si era così mostrato condiscendente verso i suoi sudditi, inizialmente rispettoso dello Statuto e delle prerogative del parlamento, circondandosi di un alone di bontà e di disponibilità. Fino al 6 maggio 1898, quando le cannonate del generale Bava Beccaris falcidiarono la folla (80 morti, migliaia di feriti) che a Milano protestava in piazza contro i disagi di una grave crisi economica. La brutalità della truppa fu impressionante. Umberto I non se ne lasciò turbare e anzi decorò con la massima onorificenza di allora «il feroce monarchico Bava» della canzone anarchica. Fu un gesto puramente simbolico. Ma, appunto, Umberto I era un simbolo e pagò caro quel gesto .
Fu la molla che fece scattare il proposito omicida di Gaetano Bresci. Albeltaro segue da vicino anche l’attentatore nella sua ultima giornata di libertà. Al mattino, dopo una notte passata tra le braccia di una amante occasionale, Bresci si veste e si sbarba, poi si reca nel parco di Monza dove sa che il re si recherà quella sera per premiare i partecipanti a un concorso di ginnastica. La differenza tra i due protagonisti è questa: Umberto I vive le sue ultime ore nella totale inconsapevolezza di quanto sta per succedere. Bresci invece lo sa, ha tutto programmato da tempo. La pistola l’ha comprata negli Stati Uniti, a Paterson, dove era emigrato; e nell’ambiente degli anarchici italoamericani aveva maturato il suo proposito: «chi vuol essere libero faccia un gesto , lui ha deciso di farlo e lo farà», scrive Albeltaro.
Bersagli simbolo
L’offensiva anarchica aveva allora raggiunto il culmine: nel 1897 Michele Angiolillo aveva ucciso Cánovas, il primo ministro spagnolo; Giovanni Passannante e Pietro Acciarino avevano già due volte tentato di assassinare Umberto I; nel 1894 Sante Caserio aveva assassinato il presidente della repubblica francese, Sadi Carnot; nel 1898 Luigi Luccheni aveva pugnalato a morte l’imperatrice Elisabetta d’Austria. Questo per restare ai soli anarchici italiani. Era una strategia di morte fondata sull’indissolubilità del binomio sovranità-Stato nazionale, una tragica anticipazione di quel «colpire al cuore dello Stato» che sarebbe stato al centro dell’anacronistica iniziativa terroristica degli anni Settanta del Novecento italiano e che in quell’ottica avrebbe selezionato i suoi bersagli simbolo.
Bresci, come i suoi compagni di allora, «si sentiva la storia sulle spalle» e se la caricò tutta. Uccise Umberto I e subito fu assalito dalla folla; i carabinieri lo salvarono dal linciaggio. Fu condannato all’ergastolo, con i primi sette anni di scontare in isolamento assoluto. Visse così la sua pena in assoluta solitudine. Era una condizione per lui innaturale. Solo, con il ricordo di un gesto che si era rivelato inutile e fallimentare come tutta la strategia politica che lo aveva ispirato. Morì il 22 maggio 1901: il referto medico garantì che si era ucciso impiccandosi. Ci furono molti dubbi.