La Stampa, 28 giugno 2019
L’Eritrea e la guerra agli ospedali cattolici
All’inizio, incontrando i migranti, mi dicevo: l’essenziale è che da qualche parte resti quello di cui si è vissuto. Le usanze. La festa di famiglia. La casa dei ricordi, anche se miserabile. La religione in cui nonostante tutto si crede. L’essenziale è vivere per il ritorno.
Poi ho conosciuto i profughi eritrei, parte consistente di quelli che, un tempo almeno, sbarcavano in Italia dopo inenarrabili peregrinazioni. E ho capito che questa regola per loro non aveva significato. Gli eritrei sono evasi da una immensa prigione. Gli evasi che cosa si portano dietro? La distribuzione del cibo pessimo? L’ora d’aria? Il lavoro inutile e obbligatorio? Le angherie dei guardiani? Sì, a loro manca l’essenziale: ovvero qualcosa che renda desiderabile il ritorno.
Gli Stati vergognosi
Dimentichiamo in fretta noi uomini dell’Occidente. Che l’Eritrea è, in Africa, uno degli «Stati vergognosi» come ben li definiva lo scrittore congolese Sony Tansi. Da cui gran parte della popolazione non sogna altro che poter fuggire, a costo di affrontare i pescecani del Mar Rosso e quelli, ancor più feroci, che vendono i viaggi che trasudano sangue e sudore per l’Europa. Abbiamo dimenticato che l’Eritrea, il suo regime, applicando una sorta di metodico fanatismo dell’autocrazia, pratica con disinvolta indifferenza, a dirla crudemente, lo schiavismo di stato, travestito da servizio militare perenne.
Dove prevalgono spionaggio e delazione di massa e l’arresto spiccio e arbitrario, che colma centinaia di carceri di migliaia di oppositori veri o presunti di cui si ignora la sorte. Che, in odio all’Etiopia, ha sostenuto le funeste imprese dei taleban somali. E offre ora sostegno logistico ai ricchi massacratori sauditi che bombardano lo Yemen.
Una recente rimessiticcia pace con Addis Abeba, con cui ha combattuto per quattro sassi la guerra forse più inutile della storia, le ha ridato fin troppo agevoli credenziali presso le disinvolte cancellerie democratiche. Succede così. Ci accontentiamo di poco. Si fa finta di non sapere che dietro il tentato golpe dei giorni scorsi in Etiopia molti intravedono proprio loro, gli eritrei. Vogliono ripetere una attempata operazione che è valsa l’indipendenza nel 1993: riportare al potere ad Addis Abeba i tigrini, fratelli oltrefrontiera di etnia e di lingua. Un modo pulito per vincere, senza sparare un colpo, la guerra.
La distruzione delle chiese
In prima fila, ahimè, tra i più malaccorti e solleciti nel fariseismo della spregiudicatezza realistica noi italiani con le immancabili carovane di sottosegretari e imprenditori in cerca di affari a ogni costo. La bolsa e deprimente retorica dei «confortanti passi avanti», del «paese chiave del corno d’Africa», le vuote astrazioni degli «antichi legami indissolubili» dei tempi degli ascari fedeli e delle «madame» succulente.
Son durati poco i «passi avanti». Il regime ribadisce a ritmi inauditi malefatte e ribalderie. Non le nasconde, spargono catene di metastasi. Cerca nuovi nemici da smantellare nell’affanno del peggio.
Stavolta tocca alle strutture sanitarie che la chiesa cattolica tiene aperte nel paese, da Barentu a Keren, e che costituiscono per la popolazione, aggrappata alle perenni soglie della miseria, un soccorso importante e efficiente.
I metodi sono abitudinari, le tirannidi in Africa non hanno fantasia e non devono tralignare alcun sacro principio. Non ne riconoscono alcuno. Energumeni del regime hanno fatto irruzione in ospedali e ambulatori cattolici, una trentina, frequentati da duecentomila pazienti l’anno, sfondato porte, sequestrato le chiavi, gettato in strada i malati, cacciato preti e suore (una di loro che ha tentato di opporsi alla illegittima soperchieria è stata arrestata). Li hanno sostituiti alla svelta con nuovo personale. Le gerarchie cattoliche, in un documento di garbata protesta, hanno ribadito di aver sempre scrupolosamente rispettato le norme che regolano l’attività medica, denunciando che, poiché le strutture si trovano spesso all’interno dei luoghi di culto, la espropriazione si trasforma in una limitazione della libertà religiosa. Hanno lanciato una sommessa mobilitazione con tre settimane di preghiere pubbliche.
La rappresaglia del governo
Poco per disturbare il regime di Isaias Afewerki che sembra aver avviato una offensiva di intimidazione verso la minoranza cattolica; il cui prossimo bersaglio sarebbero secondo voci ricorrenti le scuole cattoliche. Non un sussulto islamista, per carità. Una vendetta politica semmai. Perché in due documenti pastorali i vescovi hanno accusato duramente il regime, tracciando un poco lusinghiero parallelo con il Sud Africa dell’apartheid.
Un punto chiave. Da chiarire. Subito. Per non esser accusati di strepitare soltanto quando a subire torti e prepotenze sono la chiesa e i cristiani. Non si fanno graduatorie tra le soperchierie. Ma gli attacchi alla chiesa sono in molti paesi africani, non solo in Eritrea, la conseguenza del fatto che ha alzato la voce denunciando presidenti e guide supreme responsabili di un malefico presente. Mentre troppi altri tacevano, soddisfatti di inzotichire nella speranza di ruoli importanti e di bottino.
Resta il problema: che fare? Se cioè basti restare ancorati alla credenza che il vincitore, nel caso Afewerki, dopo tutto ha sempre ragione.
E quindi si possa congiungere il paternalismo razzista del respingere le vittime con la servilità, la furberia, la cretineria di fare affari con il loro persecutore.