Corriere della Sera, 28 giugno 2019
Jaron Lanier contro internet
«Il modo in cui abbiamo introdotto le tecnologie digitali nelle nostre vite ha peggiorato la civiltà umana. Ma possiamo ancora correggere la tendenza, provando a lavorare su un capitalismo diverso, adatto all’era di internet. Ciascuno di noi deve assumersi le sue responsabilità».
Jaron Lanier vive e lavora nella Silicon Valley: informatico, pioniere della realtà virtuale, saggista, al momento assoldato da Microsoft, prova a picconare dall’interno le storture dell’era digitale. Ne parla con il «Corriere» in vista dell’arrivo a Spoleto, dopodomani, invitato dalla Fondazione Carla Fendi per partecipare al programma di incontri sulla scienza Ecce Robot, in occasione del Festival dei 2Mondi.
Quali sono le «emergenze» da cui partire?
«Abbiamo finito per creare una società in cui molti credono nelle notizie false o nelle teorie cospirazioniste della pseudo-scienza, in cui molti sono più arrabbiati di quanto non lo si fosse in passato, con effetti negativi sulla stessa democrazia. Si parla di populisti, di autocrati, ma quello di oggi è un modello nuovo di potere: riesce a emergere chi sa incanalare l’irritabilità e la paranoia create da internet».
Che tipo di leader abbiamo davanti?
«L’uomo forte del passato diceva: “Sono il tuo capo, ho ragione io, tutti gli altri hanno torto”. La sua personalità era al di sopra di tutti. Oggi – non parlo dell’Italia perché non la conosco abbastanza, ma penso agli Stati Uniti, al Brasile, che ho visitato di recente, oppure alla Turchia – il nuovo stile del leader ha qualcosa di molto emotivo e vulnerabile. Da noi Trump può dire frasi come: “Questa persona è la mia preferita”, oppure “Io non piaccio a questo o a quello”. È un linguaggio infantile, sembra quello dei bambini al parco giochi».
Che cosa c’entra l’era digitale con tutto questo?
«Internet ha reso tutti più immaturi, irritabili, impacciati, quindi quando gli attuali leader mostrano questi aspetti della loro personalità, i cittadini si identificano».
Come correggere la rotta?
«Il tipo di esperienza umana prodotta dalla rete è diversa da qualsiasi altra precedente versione del mondo. In passato, quando si entrava in contatto con qualcuno, si aveva un motivo per farlo. Oggi, quando interagiamo con un utente online, cerchiamo soprattutto di attirare l’attenzione, oppure, per non essere ridicolizzati da qualcun altro, lo mettiamo noi per primi in difficoltà. Più che di relazioni, sembra trattarsi di “giochi mentali”. E a incoraggiarli sono le società tecnologiche come Google e Facebook, perché definiscono il loro business proprio intorno alla persuasione, alla dipendenza, alla modifica dei comportamenti. Così internet è diventata un luogo di individui che partecipano a giochi mentali con altri individui. E questo è molto pericoloso, soprattutto perché è come se il valore delle persone fosse determinato da questa dinamica in cui cerchiamo di ingannarci e persuaderci a vicenda tutto il tempo. L’unica soluzione è introdurre un gioco diverso».
Quale sarebbe?
«Internet deve diventare uno strumento per guadagnarsi da vivere, in cui ciascuno abbia una quota e per il quale dunque nutra interesse. Molti dicono che il problema sia il capitalismo, che andrebbe eliminato. Io vado nella direzione opposta: il capitalismo va rilanciato nel nuovo contesto del web. La mia idea, forse scioccante, è che ciascun individuo debba essere pagato per i dati che fornisce. Lo propongo anche per un altro motivo: le stesse società tecnologiche raccontano che i robot renderanno gli esseri umani obsoleti, dicono che perderemo il lavoro e che potremo vivere solo grazie a un reddito di base o a un sistema di welfare. Il che aumenta la sensazione che l’essere umano non abbia valore e che stiamo, appunto, vivendo quello strano “gioco” in cui tutto è ingannevole. Ma l’intelligenza artificiale non è qualcosa di reale: è solo un modo di raccogliere i dati e applicarli a un programma. Dati che, appunto, provengono dalle persone. Quindi, se venissimo pagati, guadagneremmo di più nel momento in cui ci fossero più robot. Ne nascerebbe un mondo di piena occupazione».
Per quanto riguarda invece il più tradizionale sistema di pagamento da parte degli utenti, lei ha suggerito, ad esempio per le notizie, un modello ad abbonamento in stile Netflix.
«È una possibilità. Ma voglio precisare che noi stiamo già pagando, anche quello che sembra gratuito. I nostri dati sono soldi. E in questo momento vengono rubati dalle aziende tecnologiche, che per di più li usano per ingannarci e renderci dipendenti. Quindi sì, potremmo pagare i contenuti sul modello Netflix, ma dovremmo – lo ripeto – essere anche retribuiti per i nostri dati. Il flusso dovrebbe andare in entrambe le direzioni».
Che idea si è fatto di Libra, la criptovaluta annunciata da Facebook?
«La società di Mark Zuckerberg ha fallito nel proteggere gli utenti, ci ha mentito e deluso più e più volte. Dunque è difficile essere ottimista, diciamo che ci pi provo. Il mio dubbio è che al momento Facebook abbia delle caratteristiche, ad esempio il controllo centralizzato, che sembrano incompatibili con la criptovaluta».
Lei ha scritto l’anno scorso «Dieci ragioni per cancellare subito i tuoi account social», edito in Italia dal Saggiatore, come gli altri suoi saggi. Pensa ancora che dovremmo uscire da Facebook, Instagram, Twitter?
«Ovviamente so che per molti è impossibile. Ma porre la domanda è comunque un modo per indurre a pensare, almeno per un secondo: “Che cosa sto facendo con questo account?”, “È giusto sottopormi alla sorveglianza di una compagnia manipolatrice?”».
I social network hanno influenzato l’elezione di Donald Trump?
«Difficile dirlo con certezza. Ci sono studiosi che lo sostengono. Ma le informazioni più importanti che potrebbero dirci davvero cosa è successo sono ancora racchiuse dentro Google e Facebook. Quello che di sicuro possiamo notare è il contemporaneo affermarsi di tendenze politiche simili in diverse parti del mondo, dal Brasile alle Filippine, dall’India agli Stati Uniti a diversi Paesi europei. Certo, si può cercarne il motivo analizzando fattori come la concentrazione della ricchezza, i fenomeni migratori, i dati anagrafici della popolazione. Ma se alcune spiegazioni valgono per alcuni Paesi, non funzionano per altri. L’unico elemento che di sicuro tutti hanno in comune è rappresentato da Google e Facebook».
Quanto può valere allora, in questo contesto, cancellare singoli account?
«Il mondo cambia quando diversi tipi di azioni avvengono a diversi livelli nello stesso tempo. Nelle aziende tecnologiche un reale potere di correggere il sistema è in mano a ingegneri e scienziati: è importante che siano soprattutto loro a chiedersi se quanto fanno è etico, e per fortuna in parte sta accadendo. Ecco, in questo scenario, cancellare gli account da parte di singoli utenti può comunque essere utile a esercitare una pressione su chi lavora nelle grandi compagnie».
Lei è stato negli anni Ottanta un pioniere della realtà virtuale e su questo tema uscirà a settembre in Italia il suo saggio-memoir «L’alba del nuovo tutto». Quali sono le prossime frontiere in questo ambito?
«Qualche anno fa mia moglie ha avuto il cancro e il medico ha usato per operarla una procedura in realtà virtuale. Abbiamo scoperto in seguito che si era formato con un mio collaboratore di oltre trent’anni prima. Quanto avevo costruito, insomma, era come se mi fosse stato restituito: è stato meraviglioso. Detto questo però, anche il futuro della realtà virtuale dipenderà da come decideremo di gestire l’economia di internet: potrà diventare la più orribile delle forme di controllo mentale oppure un’esperienza da sogno».
Nel suo manifesto «Tu non sei un gadget» (2010) lei criticò anche Wikipedia. Perché?
«Rispetto a tutto quello che è successo dopo, posso immaginare che oggi sembri un tema minore. Ma Wikipedia continua ad avere un problema: nutre l’illusione che internet possa definire un’unica verità. Prima esistevano singole enciclopedie, ciascuna con il suo punto di vista. Il concetto di una sola verità globale mi infastidisce e mi spaventa».