La Stampa, 23 giugno 2019
I moti di Stonewall
Stava seduta con le gambe incrociate, sbattendo le ciglia bistrate di mascara come le ali di un colibrì. Era arrabbiata, al punto da non essersi rasata e sotto il trucco pesante faceva capolino l’ombra scura della barba. Lei era un lui, una checca di Christopher Street»: così il quotidiano Daily News raccontò la battaglia di strada che oppose a New York, la notte del 28 giugno 1969 un gruppo di gay raccolti al bar Stonewall Inn, nel rione del Greenwich Village, alla polizia. Oggi Stonewall è icona del movimento per i diritti LGBT e il 28 giugno 1969 data seminale per la campagna di liberazione omosessuale. Allora i gay che si ribellarono all’ennesima umiliazione vennero ignorati da New York Times e Washington Post, irrisi dagli altri. Il Village Voice, storico foglio della sinistra americana, fu feroce contro i gay di Stonewall: «Duro tenere le lesbicacce a freno«scrisse Howard Smith, cronista che pure gli hippie adoravano. Quando partirono gli scontri, Smith scappò all’interno del bar con la polizia, infuriato dalle bottiglie lanciate dai gay «Questi f... non danzano stanotte...».
Da allora il popolo LGBT ha iniziato a battersi con fermezza, dicendo basta ai soprusi. Quella notte le vittime si ribellarono al pregiudizio e alla violenza diffusi nella società di allora
La repressione contro i gay era spietata nell’America 1969. «Il giovane Holden» di Salinger, pubblicato 18 anni prima, passa ora per anticonformista ma il professore gay di Holden è descritto, come di moda, da bruto molestatore. Nessun locale «perbene» accoglieva coppie gay, la comunità si rifugiava nei «bar», club privati che gli agenti di polizia tempestavano di multe per mancanza di licenza per generi alcolici, servire un cocktail agli omosessuali era considerato per legge «Turbativa dell’ordine pubblico».
Stonevall Inn risolse il problema mettendosi sotto la protezione della famiglia mafiosa dei Genovese, fondata da Lucky Luciano, fiera delle radici a Corleone e guidata dal padrino Vito Genovese. Bastava sganciar mazzette ai poliziotti corrotti del VI Distretto e nessun agente avrebbe disturbato i clienti dello Stonewall, ci volevano ancora due anni prima che Frank Serpico, detective con famiglia campana, denunciasse le malefatte dei colleghi. La situazione era pessima, niente uscite di sicurezza, nei cocktail più acqua che gin, bicchieri sporchi e per gli omosessuali borghesi i ricatti. Il cassiere di don Vito li faceva seguire e poi chiedeva soldi, se volevano evitare scandali in famiglia.
Qualcosa però andò storto la notte del 28 giugno, magari il sindaco repubblicano John Lindsay, che aveva perso le primarie del suo partito e voleva presentarsi al voto di novembre da indipendente liberale (rivincerà), decise di fare il duro o magari le mazzette dei Genovese non bastavano più. La polizia si fece avanti nell’afa e, all’una e venti, arrestò dapprima quelle che allora si chiamavano «drag queen», «travestiti» per i giornali tabloid. Un paio di loro resistette, gridando ai presenti «Aiutateci ragazzi, ci fanno male con le manette, son troppo strette». Primi a reagire, ricorda lo storico Hugh Ryan nel saggio «When Brooklyn was queer», gli adolescenti gay scappati di casa, la provincia americana era per loro insopportabile, meglio vivere in strada a Manhattan, prostituendosi per campare. Con uno scatto d’orgoglio costrinsero gli agenti e il reporter del Village Voice, a rinchiudersi nel locale, mentre i cellulari portavano al VI distretto i fermati.
C’era un pregiudizio diffuso contro i gay, che fossero pavidi e deboli, spesso causa di pestaggi e mobbing nelle camerate dell’esercito, la leva ancora obbligatoria. Il caldo di Stonewall scioglie i cliché machisti, trans, lesbiche, gay, bisessuali si battono con fermezza, dicendo basta ai soprusi, chi lancia monetine, chi bottiglie, chi prova a dar fuoco al locale intero, mentre accorrono i pompieri. Presto i tafferugli sembrano dimenticati, ma l’America 1969, che ha sepolto l’anno prima Bob Kennedy e il reverendo King, con la Columbia University occupata nel 1968 e nel 1970, a Kent State University, Ohio, quattro studenti uccisi dalla Guardia Nazionale durante un corteo contro la guerra in Vietnam, è laboratorio di idee radicali.
Nella primavera 1970, alla libreria Oscar Wilde di Christopher Street, si prepara la marcia dell’anniversario di Stonewall, prima della serie Gay Pride. Brenda Howell e Craig Rodwell scrivono ai clienti della Wilde lettere e cartoline –niente e mail, Bic, francobolli, cassette della posta- per invitarli alla marcia, che riempirà la Quinta Strada fino a Central Park, insieme protesta politica, festival musicale, manifestazione culturale. Marciano all’unisono San Francisco e Chicago e stavolta il New York Times se ne accorge, con un titolo in prima pagina. Nel 2016 il presidente Obama dichiarerà il sito dello Stonewall Inn «monumento nazionale» e quando, nel 2014, morirà Smith, vecchio reporter delle «checche», i necrologi dell’era digitale lo elogeranno «Fu lui a scrivere per primo di Stonewall!», dimentichi, nell’ignoranza frettolosa, di che cosa abbia scritto, per primo. Una vendetta ironica della Storia da correggere ma di cui sorridere mezzo secolo dopo.