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 2019  giugno 27 Giovedì calendario

Quando l’Einaudi chiese a Primo Levi di cambiare nome

Il signor Malabaila bussò alla porta di Primo Levi una mattina d’estate del 1966, il primo agosto. Ad annunciarlo fu una lettera firmata dal direttore commerciale dello Struzzo. Tutto era già pronto in tipografia, le Storie naturali praticamente in stampa, ma all’ultimo momento tra gli einaudiani era circolato un dubbio. O meglio una “perplessità”, per dirla con lo stile felpato di Roberto Cerati: sarà opportuno che il Testimone, il Sopravvissuto, il Guru di Auschwitz metta la sua faccia anche su storielle fantascientifiche che niente hanno a che vedere con la sacralità della Shoah? Non sarebbe meglio, «più simpatico» dice Cerati, più «simpatico e utile» nascondersi dietro uno pseudonimo così da evitare confusioni anche nella strategia di vendita? Non sappiamo quante volte Levi abbia riletto quella missiva. Sappiamo solo che ne fu profondamente rattristato. E sappiamo anche che su questa storia sarebbe calato un inspiegabile silenzio. Un capitolo cruciale della sua avventura esistenziale che è stato ignorato dai biografi, anche i più meticolosi. Solo tre righe su Malabaila, niente di più. Come se l’imposizione di un nomde plume fosse un costume editoriale insignificante, un atto rituale passato senza lasciare alcun segno nel fragile impasto umano di Levi. Come se non si trattasse di una rinnovata richiesta di annullarsi, farsi da parte, nascondersi, dopo una vita costantemente minacciata dalla cancellazione di sé.
A rompere il velo di reticenze provvede ora un bel libro di Carlo Zanda, giornalista di lungo corso ed autore di sofisticati libri su vicende letterarie apparentemente laterali. In Quando Primo Levi diventò il signor Malabaila (Neri Pozza) viene fatta un’operazione mai tentata prima: raccontare la storia dal punto di vista dello scrittore. Che cosa ha rappresentato il sacrificio della sua vera identità ad opera di quello che all’epoca era il santuario della cultura italiana? E come si colloca questo rifiuto nella catena di deprivazioni a cui l’intellettuale ebreo era stato esposto? Prima crudelmente scippato della sua dignità ad Auschwitz, il suo vero nome strappato da un numero tatuato sulla pelle, poi respinto nella veste di inopportuno testimone del lager nella stagione della rinascita, più tardi osteggiato nella legittima aspirazione a uscire dal confine concentrazionario per essere riconosciuto scrittore tout court.Davvero per Levi fu così semplice eclissarsi dietro il signor Malabaila, un nome che campeggiava sull’insegna di un elettrauto, in corso Giulio Cesare a Torino?
Per ricostruire questa storia occorreva mettere insieme tutti i pezzi che curiosamente erano rimasti sparpagliati, senza un filo che li cucisse in un disegno dal significato inequivocabile. A cominciare dalla lettera di Cerati che ci racconta una storia diversa da quella narrata dallo stesso Levi, pronto ad assumersi la responsabilità della scelta dello pseudonimo «perché sarebbe potuto sembrare un tradimento o una diserzione » verso chi aveva indossato la divisa a righe. A chiedergli di inventarsi un alter ego fu invece la casa editrice, in una lettera di sapore gesuitico ma non priva di immediatezza. «Non le nascondo tutte le mie perplessità circa la legittimazione di paternità», gli scrive Cerati. «Se io fossi Primo Levi lo firmerei con uno pseudonimo», in fondo sarebbe una cosa simpatica e utile, «simpatica perché sottintenderebbe nell’autore un vezzo, un estro, una ritrosia, un gentile pudore». E utile perché «è ben più facile fare leva e presa sul lettore della Tregua con uno pseudonimo- fantascienza che viceversa. Del resto non sarebbe possibile vendere un Levi-fantascienza ammiccando a un Levi- Tregua. Lei ben lo capisce». In altre parole, se Levi non dovesse tenere conto del suggerimento di marketing, le vendite potrebbero fortemente risentirne. «È solo un consiglio personale», mente Cerati, il quale poi invia la stessa lettera al caporedattore Daniele Ponchiroli con l’aggiunta in inchiostro rosso: «Con il placet di Bollati ho mandato questa lettera a Levi. Vorrei tanto che sortisse l’effetto da tutti desiderato » (la lettera, inclusiva del post scriptum, viene pubblicata per la prima volta integralmente).
Poteva trattarsi di un’alzata di ingegno di Cerati? No di certo.
Tre settimane trascorsero dall’arrivo di quella missiva in casa Levi, al numero 75 di corso Re Umberto, e la risposta data dallo scrittore al civico 1 di via Biancamano. Ventuno giorni e milleottocento passi che l’autore del libro indaga come successive tappe di una scelta tormentata, seguendo le tracce lasciate da Levi nelle conversazioni con Carlo Fruttero, negli scambi epistolari con Luciana Nissim, nei ricordi degli habitués del mondo culturale torinese. Quella era la prima estate in cui l’autore della Tregua poteva liberarsi dalla camicia di forza del Testimone, da un lutto che non sentiva più. La sua aspirazione era sempre stata scrivere racconti di finzione, poi la vita aveva preso un’altra direzione – e che direzione! – e ora a 47 anni aveva compiuto il passo decisivo, consegnando allo Struzzo i suoi divertimenti fantascientifici, che poi non erano così distanti dai mostri partoriti dalla Storia. Finalmente avrebbe potuto ottenere il riconoscimento desiderato e imboccare «la sua via di fuga» esistenziale: qualcosa di più di una semplice ambizione culturale. «Se non avranno successo», confessa alla sua amica Nissim, «per me sarà un guaio e la fine della parentesi letteraria». E invece dal suo editore arriva la richiesta di nascondersi, un’altra volta. In fondo, annota Zanda, c’è una sotterranea analogia con Romain Gary: entrambi costretti a cambiare identità per poter rimanere se stessi. Passano tre settimane prima che Levi si decida a cedere il passo al signor Damiano Malabaila, perché alla fine questa era stata la lezione appresa al campo: «Il primo ufficio dell’uomo è perseguire i propri scopi con mezzi idonei, e chi sbaglia paga ».
Centrale in questa ricostruzione appare la testimonianza di Ernesto Ferrero, all’epoca capo dell’ufficio stampa dello Struzzo. È l’unico che non abbia esitato ad ammettere un duplice sbaglio: un errore culturale, attribuito al vizio del “politicamente corretto”, e un errore umano che ferì profondamente Levi, intimamente persuaso che «l’umanità sia umanità, sia quando ride sia quando piange». Dice Ferrero: «Siamo stati noi einaudiani a chiedergli questa precauzione superflua. In realtà non avevamo capito allora quello che è diventato chiaro in seguito: che non ci sono due Levi, il memorialista e il libero narratore, ma uno soltanto in cui tutto si tiene. Difatti i “vizi di forma” dei racconti fantascientifici sono in realtà “vizi di sostanza”; le deformità del lager non si esauriscono con la liberazione, cambiano pelle, ce le ritroviamo nella vita di tutti i giorni, perché sono dentro di noi, soggetti fragili, facilmente manipolabili dai regimi autoritari, persino dai più blandi».
Storie naturali, uscito con lo pseudonimo di Malabaila, non ebbe successo. La strategia messa a punto dalla casa editrice si sarebbe rivelata fallimentare, fino a quando il libro venne ripubblicato nel 1979 con il nome di Levi. Ma l’intento che anima la ricostruzione di questo capitolo finora oscurato non è polemico né contro la Einaudi né contro i biografi distratti, ma puramente risarcitorio: restituire la sua vera voce a un “imperdonabile” – secondo la categoria di Cristina Campo – ossia a uno di quei «cercatori di perfezione stilistica e di pensiero» per i quali la vita è un affare terribilmente complicato. Talvolta troppo complicato da poterla vivere fino in fondo.