La Stampa, 27 giugno 2019
Parla il monaco rapito dall’Isis
Oggi vive da rifugiato con i rifugiati a Suleymanya, nel Kurdistan iracheno. Ma noi gli parliamo mentre è a Roma, al Centro riabilitativo Don Gnocchi, dove si sta curando la schiena segnata dalle torture subite 4 anni fa dai jihadisti dell’Isis. Padre Jacques Mourad, monaco originario di Aleppo, in Siria, è sopravvissuto a quasi cinque mesi di sequestro dopo essere stato preso nel suo convento di Mar Elian, non distante da quella Mar Musa dove con l’amico padre Paolo Dall’Oglio, rapito nel luglio 2013, aveva creato l’omonima comunità.
21 maggio 2015: che cosa succede quel giorno?
«Due ragazzi armati fanno irruzione nel monastero. Mi trascinano nel cortile dove sono appostati altri soldati. E trattengono Boutros, un giovane postulante, costringendolo a salire in auto con me».
Per quanto tempo vi lasciano in macchina?
«Quattro giorni. Senza poterci muovere, né stendere le gambe, con le braccia legate e gli occhi bendati. Bruciati dal sole che si schianta contro il finestrino chiuso, e intirizziti dal freddo penetrante della notte».
Cibo e acqua?
«Ogni tanto ce ne offrono, ma non riesco ad accettare niente, sono troppo arrabbiato nel vedere questi ragazzi reclutati in una tale impresa. E sentendoli parlare capisco di conoscerli».
Come procede il viaggio?
«Ogni volta che ci fermiamo a un posto di blocco, il conducente si ferma e annuncia che siamo ostaggi cristiani, e allora gli uomini ci sputano addosso. Poi, una notte, la vettura rallenta. Boutros mi sussurra: "Siamo a Raqqa". È la città che lo Stato islamico considera la capitale. Eccoci nel cuore dell’inferno».
Qual è una delle scene più scioccanti che vive?
«Una mattina un jihadista ci viene a prendere insieme a un bambino di 8 o 9 anni che imbraccia un fucile più grande di lui; vedendo che zoppico per il ginocchio che mi fa male il ragazzino si rivolge all’uomo e gli chiede: "Vuoi che lo picchi per farlo camminare più svelto?"».
Com’è la vostra cella?
«Era un bagno di 6 metri per 3, con un materasso a terra, un pezzo di moquette, coperte bagnate, abiti macchiati di sangue e segni di proiettili sul muro. C’è un odore pestilenziale, di lato una doccia e dei Wc al di sopra dei quali un piccolo lucernario permette di vedere un pezzettino di cielo».
Subite torture?
«Sì, con violenze verbali e fisiche. Abbiamo molti "visitatori" che, come in uno zoo, vengono a vedere le strane bestie che siamo. Entrano, ci insultano e minacciano di tagliarci la testa se non ci convertiremo all’islam».
E quelle fisiche?
«Un giorno arrivano con dei tubi come quelli usati per annaffiare. "Chi è il prete?". "Sono io". "Sei venuto per convertire i musulmani! Girati!". E cominciano a frustarmi. Il dolore è insostenibile. I tubi schioccano, la schiena mi brucia, la pelle si lacera, e mentre mi colpiscono mi insultano. Vorrei urlare di dolore. Chiudo gli occhi. Dopo venti minuti di furia i miei carnefici si fermano. Quello che mi frusta prende un coltello e me lo mette alla gola: "Pentiti!", mi grida. "Cosa devo dire?". Silenzio. Poi comincia a contare: "Uno, due, tre...". Mai la morte mi è sembrata più vicina. Con un ultimo sforzo, grido la mia preghiera: "Dio mio, abbi pietà di me!". Il mio aguzzino mi prende per i capelli, mi sbatte a terra e va via».
Momenti di cedimento?
«Eccome. Dopo settimane ho voglia di chiedere ai jihadisti di sgozzarmi e farla finita una volta per tutte. Ma poi penso che Dio è con me, e la speranza non mi abbandona».
Riesce a provare qualche emozione incoraggiante?
«Arriviamo a Palmira. Mi trovo faccia a faccia con due uomini della mia parrocchia di Qaryatayn. E dietro di loro c’è la metà dei miei parrocchiani: uomini, donne e bambini. Mi corrono incontro, mi abbracciano: sono felici! Non si sentono più soli, esposti agli umori dei jihadisti che li tengono prigionieri. E qui capita una scena sorprendente».
Quale?
«Dagli occhi dell’emiro scende qualche lacrima: com’è bello vedere questa tenerezza sfuggire a un cuore apparentemente indurito».
Quando capisce che potrà salvarsi, prima di riuscire a fuggire aiutato da amici musulmani?
«Una Range Rover entra nella prigione dove siamo tenuti in ostaggio, scendono 5 emiri. Vengo accompagnato da loro. Mi metto in ginocchio. Il più vecchio prende la parola: "Siamo i rappresentanti del califfo Bagdadi, per mettervi a parte della decisione che concerne i cristiani di Qaryatayn". Prende una pagina stampata, con firma e timbro. Mi spiega: il Califfo «poteva scegliere fra quattro possibilità. La prima: uccidere gli uomini e prendere le donne e i bambini. La seconda: ridurvi in schiavitù. La terza: chiedere un riscatto per la vostra liberazione. La quarta, la mana».
Che cosa significa?
«In arabo significa l’atto di donare. Gli chiedo di essere più preciso. "Vi risparmia la vita". Il motivo? Perché non abbiamo mai voluto combattere contro di loro. Non credevo alle mie orecchie. Era un sogno? O ancora una tortura psicologica? No. Improvvisamente sono invaso da una gioia immensa, ho voglia di esultare, cantare, ballare: vivremo!».
Cosa prova nei confronti dei suoi sequestratori?
«Non li odio. Ribadisco la scelta radicale che ho fatto nel corso di quei terribili cinque mesi: il perdono».