27 giugno 2019
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Biografia di Mel Brooks
Mel Brooks (Melvin James Kaminsky), nato a New York il 28 giugno 1926 (93 anni). Regista. Sceneggiatore. Comico. Compositore. Produttore. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti, un premio Oscar alla migliore sceneggiatura originale (Per favore non toccate le vecchiette, 1969). «Vecchio leone della comicità, al cinema ma anche nei musical, a teatro, in televisione, da solo o in gruppo. […] Uno dei grandi di Hollywood, come attore, compositore, musicista, regista, tanto da farlo entrare nel ristrettissimo numero […] delle star che hanno vinto i quattro premi più prestigiosi dello spettacolo americano: il Tony, L’Emmy, il Grammy e l’Oscar» (Simonetta Robiony). «Guardate la storia ebraica: talmente triste, che lamentarsi sarebbe intollerabile. Così, per ogni 10 ebrei che si battono il petto, Dio ne ha designato uno a essere pazzo e divertire i battitori-di-petto. Da quando ho 5 anni so che io sono proprio uno di questi. Volete sapere da dove viene la mia commedia? Dal fatto di non essere stato baciato da una ragazza fino all’età di 16 anni. Viene dal sentimento che, come ebreo e persona, non ti adatti alla maggioranza della società americana. E dalla consapevolezza che, anche se sei migliore e più brillante, non ne farai mai davvero parte» • «Sono nato a Parigi, nel sedicesimo arrondissement. A 3 anni suonavo la fisarmonica sulle rive della Senna e sognavo un giorno di andare in America. No, mi sono confuso. Sono nato a Williamsburg, Brooklyn… ma sognavo di essere nato a Parigi, e sognavo che le ragazze che vivevano a Brooklyn fossero emancipate e libere come quelle di Parigi». Altra variante d’autore: «Sono nato a Brooklyn il 28 giugno 1926, il giorno del dodicesimo anniversario dell’attentato all’arciduca Francesco Ferdinando d’Austria. Vivevamo in un appartamento al 515 di Powell Street. Sono nato sul tavolo di cucina. Eravamo così poveri che mia madre non poteva permettersi di avermi: fu la signora del pianerottolo a darmi alla luce». «Melvin era il quarto figlio, dopo Irving, Leonard e Bernie, di Kate Brookman (precedentemente Bruckmann), ebrea russa originaria di Kiev, e Maximilian Kaminsky, ebreo polacco originario di Danzica» (Giannalberto Bendazzi). «Il nonno paterno Abraham era un pescivendolo che, nel 1893, si spostò negli Stati Uniti con la moglie Bertha e i dieci pargoli» (Ilaria Myr). «Risiedevano nel quartiere di Williamsburg, un “ghetto” di Brooklyn, dove la recente immigrazione ebraica confinava con le recenti immigrazioni irlandesi, polacche, italiane. […] I Kaminsky non brillavano per dovizia di mezzi. La loro situazione ebbe un peggioramento decisivo quando Maximilian, di professione messo di tribunale, morì trentaquattrenne per tubercolosi ai reni. “Avevo due anni e mezzo”, ricorderà Mel Brooks nel 1971. “Io credo che, inconsciamente, questa cosa abbia per me il valore di un oltraggio. Dovrei essere furioso con Dio, o con il mondo, per questo. E sono sicuro che molta parte della mia comicità è basata sulla rabbia e sull’ostilità. Crescendo a Williamsburg, imparai a rivestire la rabbia di comicità per risparmiarmi i problemi”. Le difficoltà economiche vennero affrontate con energia da Kate Brookman, che trovò lavoro come sarta. […] Nonostante gli sforzi, anche in considerazione della Depressione che nel frattempo aveva attanagliato l’economia americana, Kate non avrebbe potuto da sola sostenere il peso di cinque persone da sfamare, vestire e far vivere. Venne qualche aiuto da parte di zia Sadie, che contribuì nella misura delle sue scarse possibilità, e poi i ragazzi pian piano cominciarono a lavorare: prima Irving, che era il maggiore, poi gli altri. “Irving e Leonard andarono a lavorare a dodici anni e contemporaneamente riuscirono a finire la scuola. Riuscirono a tirar fuori la famiglia dalla rovina e a permettere a tutti di mangiare e di vestirsi”» (Bendazzi). «Mio fratello Bernie giocava a baseball, faceva il lanciatore. Mio fratello Lenny è stato un eroe della Seconda guerra mondiale. Irving, invece, era un intellettuale: mi ha consigliato degli ottimi libri. Siamo cresciuti insieme, come cuccioli in una scatola di cartone. Da bambini eravamo davvero poveri». «A quanto risulta, il piccolo Mel apprese il senso dell’umorismo […] dai membri della famiglia. […] “Mia madre aveva un’esuberante gioia di vivere, e me l’ha trasmessa”, riferisce il comico in un’intervista del 1966. “All’epoca in cui i miei fratelli erano grandi abbastanza per andare a lavorare, lei poteva stare a casa, ed era la mia compagnia. Lei è veramente stata la responsabile dello sviluppo della mia immaginazione”. Qualche merito andò anche alla nonna, una vecchietta che parlava quasi soltanto yiddish e farfugliava barzellette bilingui. Una di queste riguardava un giovanotto che alla visita di leva era stato giudicato “Uno – A”, cioè perfettamente abile: tornato a casa, spiegava la cosa alla madre, che si dichiarava molto contenta di non doverlo veder partire. Stupore del figlio, e giustificazione della madre: con “Uno – A” non possono farti fare il soldato. “Il senso era”, spiega Brooks, “che l’inglese ‘A’ suona ‘ei’ in yiddish. ‘Ei’ significa ‘uovo’, e ‘uovo’ significa ‘testicolo’. Mica male per la nonna, eh?”. Un ulteriore elemento di sviluppo mentale erano gli incontri con lo zio Joe. “Lo zio Joe era un filosofo, molto profondo, molto serio. ‘Mai mangiare cioccolata dopo il pollo’, ci raccomandava, agitando il dito. ‘Non comprate una cintura di cartone’, diceva. E ci metteva in guardia – io avevo cinque anni –: ‘Non fate investimenti. Mettete i soldi in banca. Anche la terra può naufragare’. Lo zio Joe era capace di arrivare mentre stavi giocando a stickball e batterti sulla spalla: ‘Sposati una ragazza grassa’, sussurrava. ‘Sono forti. Lavorano per te. Non sposare un volto. Devi guardare sotto’. […] Il senso dell’umorismo fu subito messo in azione: essendo il piccolo della famiglia, tutti erano attorno a lui, e tutti si aspettavano che desse spettacolo. Ricorda il fratello maggiore, Irving: […] “Bastava dirgli di fare una faccia, e lui arricciava il naso o qualcosa del genere. Anche quando aveva solo pochi mesi, capiva quello che volevamo”. Al di fuori della cerchia familiare, dar spettacolo era una maniera di affermarsi socialmente. Le prime battute che ricorda di aver detto gli uscirono di bocca al Sussex Camp per bambini ebrei bisognosi. Aveva sette anni. Tutto quello che gli assistenti dicevano, lui lo rovesciava. “Mettete i vostri piatti nella spazzatura e mettete in pila gli avanzi, ragazzi!”; “State dalla parte della piscina dove l’acqua è bassa finché non imparate ad annegare!”. Generalmente gli exploit si concludevano con un ceffone, ma gli altri ragazzi si divertivano, ed egli era all’apice del successo. […] “Avevo bisogno del successo”, ricorda ancora Brooks. “Ero piccolo di statura, ero mingherlino. Ero l’ultimo che prendevano quando si trattava di formare la squadra. ‘E va bene, lo prendiamo. Mettiamolo nel fuori-campo, come esterno’. Io non ero un cattivo giocatore, ma gli altri bambini erano dei campioni. […] Però io ero più spiritoso della maggior parte dei bambini della mia età, così me ne andavo in giro con quelli che avevano due anni di più. Perché permettere a questo ragazzino sparuto di bighellonare in loro compagnia? Ero in grado di offrire loro la ragione: diventai il loro freddurista ufficiale. Inoltre avevano paura della mia lingua. Ce l’avevo tagliente, e qualcuno avrebbe potuto farsi male”. […] Un’altra occasione per fare spettacolo in età prepuberale era l’angolo della strada. Era il luogo favorito per i ritrovi durante il bel tempo, sia per la possibilità di sbirciare le ragazze, sia per la vicinanza di un negozio di dolciumi. L’attività fondamentale dell’angolo era il raccontare storie. “Nella nostra banda, io ero il campione indiscusso del raccontar storie. Era duro, l’angolo. Dovevi colpire nel segno. Altro che monologhi triti, altro che barzellette bell’e fatte. Cominciavi: ‘Lasciate che vi racconti che cosa è successo oggi…’, e dovevi veramente essere sicuro del fatto tuo”. Una delle storie accolte con maggior favore era quella del grasso Hymie. Il grasso Hymie se ne stava appeso alla scala antincendio. Arrivò sua madre, che si spaventò per la positura e strillò. Lui cadde per due piani e si ruppe la testa. “Erano storie vere e tragiche, e noi ci ridevamo. La storia doveva essere vera, e naturalmente doveva essere divertente. Qualcuno che si fosse fatto male era un soggetto perfetto”» (Bendazzi). «A quattordici anni si affranca entrando nel circuito del Borscht, la catena alberghiera dei monti Catskills in cui debuttano tutti gli attori ebrei, come “tummler” o specialista della smorfia. Studia la batteria con Buddy Rich, inizia a scrivere gag per il comico sassofonista Sid Caesar ed entra a far parte di un gruppo di scrittori che faranno il futuro della risata a Broadway: Neil Simon, Carl Reiner e un certo Woody Allen» (Robert Benayoun). «A cavallo tra gli anni ’50 e ’60 Brooks si occupa anche di musica, sia come cantante sia come autore di commedie musicali per Broadway» (Gianni Canova). Nel 1963, un incontro fondamentale: quello con Gene Wilder. «Lo incontrai per la prima volta quando recitava in uno spettacolo con mia moglie Anne Bancroft, al Martin Beck Theatre a Broadway. Anne recitava nel ruolo della protagonista di questo capolavoro brechtiano intitolato Madre Coraggio e i suoi figli. Gene Wilder era il cappellano. Anne mi disse di tener d´occhio il giovanotto che recitava in quel ruolo perché pensava che sarebbe stato perfetto per un altro personaggio, Leo Bloom, che stavo scrivendo all´epoca per il mio primo film, Per favore, non toccate le vecchiette. Mi disse: “Osservalo bene. È il ritratto dell´innocenza”. Subito dopo decisi di incontrare Gene nel backstage e di chiedergli di andare a bere un caffè insieme. Sapevo che non aveva un soldo, quindi lo rassicurai che avrei pagato io. Durante la conversazione si lamentò delle reazioni divertite del pubblico alla sua recitazione: era turbato perché in molte occasioni, per quanto si fosse impegnato a essere triste e commovente, aveva suscitato soltanto delle grasse risate. Cercai di spiegargli la ragione: “Dio ti ha donato un singolare talento. Sei un attore seriamente divertente”. Gli parlai della mia idea di fargli interpretare il personaggio di Leo Bloom, e lui mi rispose: “Per me sarebbe un sogno troppo grande perfino da sognare”. Circa diciotto mesi dopo, era impegnato a Broadway in una rappresentazione intitolata Luv. L´ultimo giorno della programmazione andai a trovarlo in camerino e gli scaraventai sul tavolino la bozza ultimata del mio film. Gli feci: “Questo è Per favore, non toccate le vecchiette e tu sarai Leo Bloom”». «Il suo primo film, Per favore, non toccate le vecchiette (The Producers, 1968), dà corpo a un’idea satirica grandiosa: fare lanciare da due scrocconi, alla ricerca di un bidone teatrale che li aiuterà a frodare la compagnia di assicurazioni, una commedia musicale ispirata alla vita di Adolf Hitler. Il tandem Zero Mostel-Gene Wilder esalta questa blasfemia storica nata dall’immaginario ebraico» (Benayoun). «Dove ha scovato i modelli per questi miserabili impresari di Broadway? “Dalla mia esperienza personale. Io ero un povero ragazzo ebreo che voleva lavorare nello spettacolo. Quando arrivai a Broadway ero come Leo Bloom, candido e timido, e finii invece sotto un laido impresario come Bialystock, che si scopava le vecchiette sul divano del suo studio”» (Robiony). «È vero che al tempo del film ebbe difficoltà a vendere la sua sceneggiatura? “Sì. Nessuno la voleva. Il titolo originale era Springtime for Hitler, lo show dentro lo show: la gente lo considerava frivolo e sacrilego. Mi chiesero se potevo cambiarlo e metterci invece Mussolini. Ne verrebbe fuori una comica diversa, dicevo. Poi me lo hanno fatto produrre, il film, e all’inizio andò male, venne stroncato. Poi, all’improvviso, venne adottato da tutti, anche da quei critici che lo avevano ripudiato: valli a capire. È diventato un cult movie”» (Silvia Bizio). «Famoso versetto: “Don’t be stupid, be a smarty, come and join the Nazi party!” (Non essere stupido, fatti furbo, vieni e iscriviti al partito nazista!)» (Anselma Dell’Olio). «Se il film successivo, Il mistero delle dodici sedie (The Twelve Chairs, 1970), dal classico russo di Ilf e Petrov, è un esercizio di stile, una favola gogoliana ricondotta al gusto contemporaneo, dove lo stesso Brooks interpreta un personaggio swiftiano, Mezzogiorno e mezzo di fuoco (Blazing Saddles, 1974) lo riporta nell’orbita familiare – la parodia a forti tinte dello humour yiddish –, ma questa volta intrisa di radicalismo nero» (Benayoun). «Ricordo di avere deciso di girare Mezzogiorno e mezzo di fuoco perché da ragazzino proprio non capivo come facessero i cow-boy a non – posso dirlo? – a non scoreggiare, con tutti i fagioli che mangiavano e con tutto il caffè che ingurgitavano. Ecco, diciamo che feci il mio personale western per "correggere" questa cosa». «Se i due primi film rientrano appena nelle spese, Mezzogiorno e mezzo di fuoco e l’immediatamente successivo Frankenstein Junior (Young Frankenstein, 1974, scritto con il “compare” Gene Wilder) ricavano rispettivamente 35 e 30 milioni di dollari» (Benayoun). «Frankenstein Junior […] è ancora moderno. […] Come è nata l’idea del film? “Da ragazzi sia io che Gene Wilder avevamo visto il Frankenstein di Whale, del ’31. Ne abbiamo parlato sul set di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, e lui ha detto: pensa al nipote di Frankenstein che, imbarazzato dalla follia del nonno, nega le sue teorie. Gli ho detto: questo è un film, un bel film. Lo abbiamo scritto in tre mesi, tutte le notti”. Credevate sarebbe stato un successo? “Abbiamo capito che era divertente perché ci abbiamo messo molto a girare: dovevamo interrompere le riprese, visto che tutti ridevano. Era un continuo ripetere: ‘Contròllati, smettila, di ridere: dobbiamo finire il film, non lo finiremo mai così. Serve disciplina, disciplina!’. E ridevano ancora di più. Però, no, non mi aspettavo un successo così”. Retroscena inediti? “C’è una cosa che non ho mai detto. Avevamo fatto un buon accordo con la Columbia Pictures: ci avrebbe dato quasi 2 milioni di dollari per fare il film. Dopo le strette di mano, mentre ero sulla soglia della stanza dove avevamo fatto la riunione coi dirigenti, dico: ‘Ah, tra l’altro, faremo il film in bianco e nero’, e ho chiuso la porta. Hanno iniziato a corrermi dietro, gridando: ‘No, no, non puoi farlo in bianco e nero. Il bianco e nero è vecchio, no, no: colore, colore! Tutti ormai hanno il colore, anche il Perù ha il colore’. E hanno rotto il contratto. […] Ma un produttore ha dato alla 20th Century Fox il copione: l’hanno amato e ci hanno dato più soldi. Il bianco e nero doveva essere un addio ai film di quell’epoca”» (Chiara Maffioletti). «Brooks dedica al muto il successivo L’ultima follia di Mel Brooks (Silent Movie, 1976), corredandolo di sottotitoli e di accompagnamento musicale (la sola parola pronunciata, e per giunta dal mimo Marceau, è “Chut”). Poi, Alta tensione (High Anxiety, 1977) sarà consacrato ad una approssimazione perfezionista di Alfred Hitchcock» (Benayoun). «Finalmente siamo riusciti a mettere insieme Alta tensione e ho invitato Alfred Hitchcock, che era diventato mio amico, a vederlo. Per tutta la durata del film, non ha mosso un muscolo. Ogni tanto rideva. Quando siamo arrivati alla scena della doccia, in cui l’inchiostro del giornale con cui mi hanno ucciso, o hanno provato a uccidermi, finisce nello scarico e sembra sangue, lui ha detto: “Geniale, davvero geniale”. Alla fine, però, mi fa: “Hai sbagliato una cosa. Gli anelli della tenda. La tua ne ha 13… la mia ne aveva solo 10”. Ho dovuto farmene una ragione: la mia tenda aveva 13 anelli, e la sua 10». Dopo La pazza storia del mondo (1981), apprezzato più dal pubblico che dalla critica, «negli anni ’80 sembra esaurire la sua vena comico-satirica e, a parte Che vita da cani! (1991), le altre opere (da Balle spaziali, 1987, a Dracula morto e contento, 1995) risultano fiacche e ripetitive, con l’eccezione di Essere o non essere (1983) di A. Johnson, in cui recita accanto alla moglie A. Bancroft. Anche le sue prove d’attore più recenti (fra cui un paio di film di e con E. Greggio), non godono di miglior sorte» (Canova). Grande successo riscosse invece, all’inizio del nuovo millennio, la trasposizione teatrale in forma di commedia musicale di Per favore, non toccate le vecchiette, interamente curata da Brooks: portata per la prima volta in scena a Broadway – con il titolo The Producers, lo stesso del film del 1968 nella versione originale – nell’aprile 2001, rimase in cartellone per ben sei anni consecutivi (2.502 rappresentazioni). «Così mi sono tolto una grande soddisfazione e ho realizzato un sogno che avevo fin da bambino: avere un musical a Broadway con la scritta: "Parole e musica di Mel Brooks". Posso morire in pace». Nel 2005 tale versione fu a propria volta trasposta nel film The Producers – Una gaia commedia neonazista, diretto da Susan Stroman sotto la stretta supervisione di Brooks. «Nel ’68 il film andava bene così com’era, ma poi ne ho fatto un musical di successo per Broadway, e a quel punto ho sentito forte l’esigenza di registrarlo, di averlo disponibile su un supporto, una cassetta o un dvd, per avere per sempre quegli artisti, quelle coreografie e tutte le ventidue canzoni che ho scritto per questo musical». Minor fortuna arrise invece alla trasposizione teatrale di Frankenstein Junior (2007), sia per ragioni economiche – gli elevati costi di produzione e l’esorbitante prezzo del biglietto (450 dollari) – sia per la tiepida accoglienza della critica. Il progetto di una trasposizione teatrale di Mezzogiorno e mezzo di fuoco, più volte annunciato, è da tempo in fase di stallo • «Ho sempre scritto canzoni per i miei film, come I’m Tired per Mezzogiorno e mezzo di fuoco o Hope for the Best, Expect the Worst, che è il mio motto, per Il mistero delle dodici sedie, e così via. […] Canticchio sempre. Mi viene una melodia in testa e la memorizzo. La fischio. Sono un gran fischiatore, da quando sono ragazzino» • «Se come attore e autore Mel Brooks ha abitato la commedia, come produttore ha prodotto film come The Elephant Man (1980) di David Lynch e La mosca (1986) di David Cronenberg» (Chiara Ugolini). «Esistono due tipi di produttori: quello che bada soltanto ai soldi e quello che vuole fare soltanto prodotti artistici. Io, naturalmente, appartengo alla prima categoria: a me dell’artisticità non frega niente. Scherzo, naturalmente. A me interessa e piace fare film belli, ma soprattutto pazzi. Sperando di ricavarne dei soldi…» • «Dopo un primo matrimonio con Florence Baum, che dura dal 1951 al 1961 e da cui ha tre figli, Stefanie, Nicky, Eddie, nel 1964 sposa Anne Bancroft, attrice figlia di immigrati italiani, […] che lo spinge verso il cinema. Un amore vero, quello con Anne, che dura quarant’anni, fino alla tragica scomparsa di lei per un tumore, nel 2005, ma che non manca di aneddoti curiosi e, ovviamente, comici. Come quello riferito alla madre di Mel Brooks, che, quando seppe che Mel stava per sposarsi con una ragazza italiana, disse: “Portala pure. Sarò in cucina con la testa nel forno”. Oppure, quello, altrettanto romanzato, delle liti fra coniugi: lui impreca in yiddish, lei in italiano. Sulla religione della nuova coppia, da cui nacque poi un figlio, Max, per anni si sono rincorse voci contrastanti: si è detto che lui si sia convertito al cattolicesimo, così come che lei si sia fatta ebrea. In realtà, Mel rimase ebreo e Anne cattolica: il figlio fu battezzato, sotto richiesta della madre, ma fece anche il bar-mitzvà a 13 anni, per volere del padre. E del loro rapporto lui disse: “Siamo così vicini l’uno all’altra che siamo interscambiabili. Io posso diventare la femminile e statuaria Anne Bancroft, lei lo yiddish Mel. Beh, mi avete mai visto con il rimmel e vestito di Dior, e lei in yarmulke (parola yiddish per ‘kippà’)?”» (Myr) • «Sono uno degli uomini più belli del mondo. Essere basso non mi ha disturbato per un solo momento. Tutti gli altri momenti volevo suicidarmi» • «I suoi film, da Mezzogiorno e mezzo di fuoco a Balle spaziali, da Frankenstein Junior a L’ultima follia, hanno rinnovato la comicità tradizionale riempiendola di note che vanno dal sovversivo al pecoreccio, spianando così la strada alla demenzialità. Come non ne fosse consapevole, lui invece li paragona ai grandi classici americani, quelli con Ginger Rogers e Fred Astaire, e cita come suoi ispiratori musicali Cole Porter e Gershwin, quanto di più lontano ci sia» (Robiony). «Iperattivo, irriverente, parossistico, sempre teso alla dismisura, ha conferito gradi di nobiltà al cattivo gusto. È un satirico senza inibizioni che porta il “pastiche” al colmo della perfezione formale e vuole essere l’erede in linea diretta dei maestri dello “slapstick”. […] In un certo senso, Brooks, come il suo amico Woody Allen, è partito dalla gag verbale (ed anche dalla onomatopea) per approdare a un effetto visivo sofisticato» (Benayoun). «Brooks è molto più politico di quanto si pensi. La sua critica alla società contemporanea è sottile. I suoi film sono pieni di battutine sui presidenti scemi, e la figura dello sceriffo nero in una società bianca di Mezzogiorno e mezzo di fuoco è una presa di posizione contro il razzismo molto forte. E molto prima di Django» (Marco Giusti). «In tutti i miei film, dietro alla risata, c’è sempre un’analisi del bene e del male, della corruzione, dell’avidità, della meschinità. È questa la mia base filosofica, anche se non la metto sotto al naso agli spettatori» (a Lamberto Antonelli) • «Credo che ancora oggi sia importante ricordare quel mostro di Adolf Hitler. Non voglio che passi alla storia come un poveretto dimenticato, non mi è piaciuta l’immagine di vecchio con la mano tremante data dal film La caduta. Hitler era un mostro che insieme ai suoi colleghi ha ucciso sei milioni di persone, non solo ebrei ma anche russi e polacchi, e distrutto l’Europa in sei anni. Bisogna continuare a ridicolizzare Hitler, e non compatirlo» • «Woody Allen […] mi piace, è un genio, un intellettuale. Lui potrebbe essere lo psicologo ed io il filosofo. Lui per guardare la realtà usa il microscopio ed io il telescopio» • «Non esiste una vera ricetta per il successo: se hai talento, il successo arriverà. Sono pochi quelli che hanno talento, che osservano la vita e sanno trasformarla in commedia. Ernest Lubitsch, Billy Wilder, Woody Allen e Mel Brooks. Il talento è necessario, ma non basta: occorre ispirazione e duro lavoro perché il sogno si avveri» • «Se non fosse diventato un gigante della commedia, cos’altro avrebbe fatto? “Sarei stato un grande venditore. Avrei potuto vendere ogni cosa: fiori, accappatoi, auto usate. Sono nato per essere un venditore”. […] La commedia è cambiata? “È diventata un po’ troppo volgare negli ultimi anni. La commedia va fatta con talento e spirito: non si può pensare solo alle parolacce per far ridere. Tra chi apprezzo oggi ci sono Sarah Silverman, Adam Sandler e Billy Crystal”» (Maffioletti) • «La differenza tra commedia e tragedia è che, se tu cadi in un tombino aperto e muori, per me si tratta di commedia». «“La comicità per me è fatta di situazioni e personaggi – spiega –, ed è ben lontana da quella tipica del varietà. Oggi a Hollywood si fanno ancora buone commedie, ma quelle classiche ormai le faccio solo io. È una questione di età. Però mi mancano tanto film come Cantando sotto la pioggia con musiche belle come quelle di Cole Porter”. È proprio dall’incontro con il compositore che Mel Brooks ha deciso di diventare commediografo. “È successo quando avevo nove anni – racconta –. Ero andato a vedere per la prima volta con mio padre Anything Goes. Quando l’ho sentito cantare mi sono fatto una promessa: da grande avrei anche io scritto canzoni e musiche così belle”. Per questo, confessa Brooks, preferisce Broadway al cinema: “In teatro il pubblico vuole le ballerine e grandi numeri, al cinema la storia prende il sopravvento sulle musiche”» (Rosa Esposito) • «La comicità è solo un’altra difesa contro l’universo». «Ridi, e il mondo riderà con te. Ridere fa bene alla vita». «Ho saputo di essere nato per fare il comico all’età di una settimana, quando tutti si affacciavano sulla mia culla e scoppiavano a ridere. Quando ero un ragazzino osservavo mia madre piangere e ridere, non sapevo perché piangeva o perché rideva, ma ero felice se lei rideva e molto infelice se lei piangeva. Così ho cominciato a far ridere mia madre per farla stare bene, e poi dopo di lei tutto il resto del mondo» • «A questo punto della mia vita, l’unica cosa che mi interessa davvero è restare vivo».