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 2019  giugno 27 Giovedì calendario

La spider di Grace

«Yes». A volte un «sì» diventa il più importante dei «no». Grace lo pronunciò con un filo di voce. Stanca. Preoccupata. Non era abituata ai copioni senza un finale già scritto. La truccatrice aveva impiegato un’ora per nasconderle le occhiaie. La sarta molto di più. Aveva rimesso mano al vestito da sposa. In pochi giorni, dall’arrivo a Monte Carlo, Grace aveva perso due chili. Troppi per il suo corpo slanciato. Colpa di quel malessere che prende quando qualcosa non torna o troppe cose tornano tutte assieme. Le feste, i sorrisi, le interviste, le riprese, le finzioni e infinite mani da stringere. Troppo tutto anche per lei regina di Hollywood destinata a un principe per nulla azzurro. «Principe triste» lo chiamavano. Ranieri III Grimaldi era andato ad accoglierla con il proprio yacht all’arrivo del transatlantico nella baia di Monte Carlo. Lei era scesa, lui impacciato le aveva preso la mano, una stretta veloce, come fra due funzionari. Neppure un bacio alla donna che pochi giorni dopo sarebbe diventata sua sposa.
«Yes», disse Grace nel vuoto della cattedrale piena di teste coronate e invitati scelti. Fra i presenti anche lui, Cary Grant. Grace pensò che erano trascorsi solo due anni da quella prima auto, l’Alpine Sunbeam MK1 spider color zaffiro ferma sulla piazzola lungo la Moyenne Corniche. L’auto su cui aveva scoperto Monte Carlo. Lei al volante, lui accanto, la baia di Monaco sotto di loro, le cineprese tutt’attorno. Non poteva sapere che poco più sopra, ventisei anni dopo, sarebbe salita su quell’ultima auto, la rassicurante Rover P6 3500 otto cilindri color del bronzo. Lei ancora al volante, sua figlia Stéphanie accanto, poi la discesa, poi il malore, poi il volo, lo schianto, il silenzio. Fatali entrambe, le due vetture. La prima perché diede il via a una favola e a una storia d’amore e di doveri; la seconda perché alla favola mise tragicamente fine. Curioso, tragico che la vita di una principessa si possa racchiudere fra i confini di lamiera di due automobili. 
«Yes», sussurrò Grace Kelly sorprendendo tutti, compreso il principe triste con l’anello in mano nel cuore della cattedrale. Quando un «sì» nasconde un «no» è sempre figlio di labbra prestidigitatrici. E quelle labbra lasciarono il mondo a bocca aperta. Come sul set, come a Broadway, come a Hollywood, come quando Grace decideva che il momento dell’incantesimo era arrivato e attori, registi, pubblico non avrebbero avuto scampo. «Ghiaccio bollente» amava definirla Alfred Hitchcock. Alludeva al modo sapiente con cui Grace viveva e recitava, alternando distacco, freddezza e sensualità. Perché comandava lei, con un impercettibile tocco di lingua che inumidiva le labbra. Comandava lei, con un sorriso avvolgente che all’improvviso le scoppiava in volto, infuocando là dove un attimo prima c’era solo il gelo. Comandava lei, con le sue mani lunghe ed eleganti sempre in bilico tra il portare verso sé e tenere a distanza da sé. Comandò anche quella mattina di aprile del 1956 nella cattedrale di San Nicola, quando con la curiosità del mondo addosso, un futuro marito accanto e un arcivescovo davanti, rispose «yes, lo voglio». In inglese, però. Evitando il «oui» d’obbligo in un rito celebrato in francese. Un affronto. Un avvertimento. Sarò così, disse senza dire, devota ma libera.
«Yes, mi piacerebbe proprio visitarli... Di chi sono quei giardini laggiù?». È la tarda primavera di due anni prima, è il 1954, la troupe sta girando alcune scene lungo la Moyenne Corniche sopra Monaco, Grace Kelly osserva il paesaggio e in lontananza nota dei giardini fioriti. «Sono splendidi» dice a Cary Grant. C’è feeling fra le due star. Hitchcock l’ha voluta per Caccia al ladro. È la storia di un furfante redento e di una giovane miliardaria in vacanza. Sarebbe una biografia se non fosse che Cary non ha mai rubato un dollaro. Grace invece miliardaria lo è davvero. Non per i film girati, undici in poco più di cinque anni di carriera, non per l’Oscar che vincerà nel 1955 per La ragazza di campagna. È ricca da sempre grazie a papà John, insopportabile ex campione olimpico di canottaggio che da Philadelphia ha fatto fortuna vendendo mattoni per grattacieli. Grace ha 26 anni, e il rapporto con quel padre ingombrante rappresenta il ring che l’ha allenata alla vita.
«Yes, è Monte Carlo, e quelli che vede sono i giardini del Palazzo dei Principi», le spiega un tecnico della troupe. Grace e Cary stanno appoggiati agli schienali color crema della decapottabile inglese. L’Alpine Sunbeam è il modello glamour di un marchio inglese. Grazie al film entrerà nell’immaginario di generazioni come sinonimo di estate, costa, mare e ricchezza. Nessuno ricorderà il modello, tutti ricorderanno Cary Grant passeggero, Grace con i capelli al vento e il sorriso incandescente che accelera per seminare gli inseguitori fra i tornanti mentre la costa scorre e per la prima volta presenta se stessa e la propria bellezza al mondo di tutti, non più solo al mondo di pochi. Nasce in quel momento la Costa Azzurra come siamo abituati a intenderla. Monte Carlo, invece, non è ancora veramente nata. Per questo il principe sembra sempre triste. Non lo è. Ranieri è solo tanto preoccupato. Lo è dall’incoronazione, avvenuta pochi anni prima, da quando ha scoperto i conti dello Stato e visionato i pochi progetti per il futuro. Sa che il Principato rischia di morire. Peggio: di diventare Francia. In fondo è solo un lembo di terra abitato dagli eredi di vecchie famiglie piemontesi e genovesi, senza spiagge, con pochi hotel, un Casinò in parte in mano all’armatore Aristotele Onassis, e un Gp d’auto che non basta ad alimentare il turismo. Per salvarlo serve qualcosa. Un’idea. Una principessa ma non una semplice principessa. Serve una regina del mondo.
«Yes, ci andrò». Un anno dopo le riprese di Caccia al ladro, nella tarda primavera del 1955, Grace Kelly è a Cannes. Ha appena vinto l’Oscar. Un amico fotografo le propone un servizio a Monte Carlo. Le tornano in mente i giardini. Accetta. Dietro al fotografo c’è il cappellano del principe, Francis Tucker, è americano, è un abile diplomatico. La regina di Hollywood e il principe di Monaco s’incontrano, restano soli mezzora, «troppo timido» dirà Grace. Lei torna in America, lui a Cap Ferrat. Le scriverà ogni settimana e ogni settimana uscirà in incognito per cercare a Nizza, Mentone e Sanremo un cinema che proietti Caccia al ladro. È amore, è interesse di Stato, è amore. Lei regina di Hollywood abdica per diventare principessa di un paese sul mare. Lui principe riservato abdica alla tranquillità per salvare il suo piccolo regno.
«Yes», pensò, «il vestito si stropiccerà se non lo stendo per bene sui sedili di dietro». Quella mattina di metà settembre del 1982, poco fuori la residenza di Roc Agel, Grace guardò il mare, la costa e la sua Monte Carlo. Quanto era cambiata. Ora non c’era persona al mondo che non conoscesse il Principato. Accanto non aveva Cary Grant come ventisei anni prima, c’era Stéphanie. La sua terzogenita. Disse all’autista «col vestito steso in tre non ci stiamo, guido io, tu resta qui» e salì in auto con la figlia. Accese il motore. Il rombo della vecchia Rover 3500 la rassicurava. Inserì la marcia e iniziò a scendere. Verso il palazzo. Verso i suoi giardini.