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 2019  giugno 27 Giovedì calendario

Amazon & Co. eludono 20 miliardi l’anno

L’Italia ha storicamente un problema di fedeltà fiscale, percentualmente specie nel Mezzogiorno. Il problema dell’evasione, però, è che la parte effettivamente recuperabile all’erario è solo una parte del totale: ci sono attività economiche, per non fare che un esempio, che semplicemente non sopravviverebbero all’emersione. Negli ultimi decenni, però, accanto alla “vecchia” evasione è cresciuto nel mondo il peso dell’elusione fiscale e, in particolare, quella dei grandi gruppi multinazionali: soldi con cui si creano aziende potenti come Stati e che, come Stati, pretendono legislazioni di favore.
L’elusione è quel meccanismo che, utilizzando scappatoie legali, ha come unico scopo sottrarre al Fisco quanta più base imponibile sia possibile. Molto all’ingrosso, questi grandi gruppi tentano di spostare i loro profitti e le attività delle loro aziende, per quanto possibile, verso i molti paradisi fiscali sparsi per il mondo, Europa compresa, anche grazie ad accordi bilaterali (spesso segreti) coi governi: di fatto, da due decenni l’aliquota effettiva che le big corporate pagano sui loro proventi continua a scendere. Il caso estremo, come vedremo, sono le cosiddette WebSoft, da Google e Amazon in giù.
Di quanti soldi parliamo? Anche qui si tratta di stime. Nella sola Ue, ad esempio, la Commissione sostenne che nel 2015 erano stati sottratti al fisco dei vari Paesi tra 50 e 70 miliardi. Un più recente rapporto dell’Europarlamento critica questa stima e sostiene che 160-190 miliardi l’anno siano “una stima conservativa delle entrate fiscali per l’elusione delle multinazionali”. Volendo applicare in modo spannometrico questo dato all’Italia, che pesa per poco più dell’11% del Pil dell’Unione, si parla di 17-21 miliardi di euro ogni anno.
Il politico più impegnato per la cosiddetta “web tax” in Italia, il deputato del Pd Francesco Boccia, parla solo per le WebSoft (Software & Web Companies) di “una base imponibile superiore ai 50 miliardi: l’Italia dovrebbe recuperare tra i 6 e gli 8 miliardi all’anno”. Ricchezza prodotta in Italia su merci e servizi consumati in Italia da Amazon, Facebook e gli altri che prende la via dei paradisi fiscali, Irlanda e Lussemburgo in primis e, da lì, in quelli d’Oltreoceano.
I giganti del web sono l’avanguardia dell’elusione fiscale. L’Area Studi di Mediobanca nel suo report sui bilanci 2017 delle multinazionali ne ha censiti 21 (su 397 grandi corporate analizzate): pur essendo il 5,2% del campione rappresentano ormai l’8,1% dei profitti “e addirittura il 19,4% del valore di Borsa”. Le prime tre per fatturato sono Amazon (148,3 miliardi), Alphabet (cioè Google con 92,4 miliardi) e Microsoft (75). Per capirci sul loro peso anche “politico”, basti dire che queste 21 WebSoft sono società più liquide della media (285 miliardi) e amano la finanza: il 25% del loro attivo è investito in titoli a breve scadenza, più di quanto facciano in percentuale le banche (21%) e incomparabilmente di più delle abitudini delle corporate del manifatturiero (3,1%).
Secondo Mediobanca: “Nel 2017 circa due terzi dell’utile ante imposte delle WebSoft è stato tassato in paesi a fiscalità agevolata (Irlanda, Lussemburgo, Paesi Bassi ecc.) con un risparmio di imposte pari a 12,1 miliardi di euro”. Nel periodo 2013-2017 il risparmio cumulato sfiora i 50 miliardi.
E questo, ovviamente, non tiene conto di altre pratiche aggressive a partire dall’elusione dell’Iva. Il servizio studi della Camera, ad esempio, ha calcolato per il 2016 in circa 50 miliardi il giro d’affari sul web in Italia: il commercio (Amazon) rappresenta ben oltre la metà della torta, ma pesano anche i servizi di pubblicità online (Google, Facebook). Su questa massa di soldi, le tasse pagate sono irrisorie.
Sempre più spesso, peraltro, le spericolate attività elusive di aziende e/o governi che fanno dumping fiscale finiscono sui giornali: è il caso della maxi-multa da oltre un miliardo che il gruppo francese del lusso Kering si appresta a pagare all’Agenzia delle Entrate o di quella da 115 milioni della banca svizzera Ubs o ancora, guardando all’estero, dei 343 accordi fiscali – svelati dall’inchiesta LuxLeaks – tra il Lussemburgo e varie aziende (anche italiane), avallati tra gli altri dall’allora premier e oggi presidente della Commissione Ue, Jean Claude Juncker.
Basta un esempio per capire come queste pratiche avvelenino il clima all’interno dell’Ue. Moltissimi italiani stanno in questi giorni programmando le vacanze: una grossa percentuale tra questi sceglieranno di prenotare online tramite siti come Booking o Airbnb. Queste imprese – tecnicamente Online Travel Agencies (Ota) – guadagnano attraverso le commissioni pagate dai gestori degli hotel o delle case in affitto: la loro parte, a seconda dei casi, si aggira tra il 18 e il 25% del prezzo della prenotazione. Un gran bel guadagno per una mera attività di intermediazione, ma che quei siti sono in grado di imporre perché hanno milioni di clienti in tutto il mondo. Ecco, per l’erario, il problema arriva dopo.
Di quella massa di denaro, infatti, poco o nulla resta in Italia nonostante sia innegabilmente prodotta qui: Booking versa le sue (poche) tasse in Olanda, Airbnb in Irlanda. Globalizzazione e digitalizzazione sono anche questo: aziende che estraggono ricchezza dai territori, dalle loro infrastrutture e dai loro cittadini portandosi i profitti dove credono, dopo aver scelto sull’apposito menu l’aliquota più scontata.