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 2019  giugno 26 Mercoledì calendario

Come morirono Valenti e la Ferida

ai detto che volevi seguirmi dovunque, fino alla morte. Questo è il momento». È il 30 aprile 1945, via Poliziano, Ippodromo di San Siro, Milano. A soli 31 anni, con un bambino in grembo, Luisa Ferida, bellissima attrice degli anni del Fascismo, si trova ingiustamente faccia al muro, davanti al plotone di esecuzione comandato da Giuseppe Marozin detto Vero, capo della Brigata partigiana Pasubio. In una mano stringe una scarpina azzurra, che aveva acquistato per il figlio Kim, morto poco dopo la sua nascita e che doveva riscaldare i piedi del futuro bimbo. Al suo fianco, che cerca di farla inutilmente sorridere, pur consapevole del destino ormai segnato, è Osvaldo Valenti, 39 anni, altro divo del grande schermo, con il quale Luisa era legata sentimentalmente. La Ferida è terrorizzata, sa che non ha colpe se non quella di aver amato.
L’accusa è quella di collaborazionismo, per aver torturato alcuni partigiani a Villa Triste, sede milanese della famosa banda Koch. Una condanna basata sui «forse» perché non fu mai dimostrato il legame tra la banda e la coppia. Addirittura, sembra che la soubrette Daisy Marchi, amante di Koch, si spacciasse con i detenuti per la celebre Ferida. Valenti, diventato nel ’44 tenente della Xa Flottiglia MAS, sa di essere innocente. Per questo motivo si era consegnato ai partigiani insieme alla sua Luisa qualche giorno prima sperando di salvarsi, confidando nella sua famosa arte oratoria (parlava sei lingue). Affidandosi a Nino Pulejo che, però, li destina a Marozin. Il 21 aprile, Vero incontra Pertini che ordina «fucilali; e non perdere tempo. Questo è un ordine tassativo del CLN. Vedi di ricordartene». 
La loro sorte è segnata. In una cascina di Baggio, subiscono un processo sommario (lei non venne nemmeno interrogata) con inevitabile condanna a morte. Mai comunicata ai due. Tanto che quando vengono fatti salire sul camion che li accompagna al luogo dell’esecuzione, i due sono ignari dell’imminente fine. Nel corso del procedimento penale che lo coinvolse, fu lo stesso Marozin a scagionare la Ferida: «Non aveva fatto niente ma la rivoluzione travolge tutti». Anzi, Marozin andò oltre, puntando il dito, in sede processuale, proprio contro Sandro Pertini. «Quel giorno Pertini mi telefonò tre volte dicendomi: Fucilali, e non perdere tempo!». Addirittura, pare che Pertini si fosse rifiutato di leggere il memoriale difensivo che Valenti aveva preparato durante la prigionia, documento che avrebbe potuto scagionare i due. Ad onor del vero, fu solo Marozin a coinvolgere il futuro presidente della Repubblica, forse proprio per alleggerire la sua posizione. È vero anche che Pertini non smentì mai tali fatti. Quanto a Valenti, la sua innocenza venne confermata dalla Corte d’Appello di Milano, la quale sentenziò che la Ferida e Valenti non furono giustiziati, bensì assassinati. Una raffica di mitra mette fine alla vita delle due celebrità. Anzi tre, visto che nel grembo di Luisa stava crescendo il loro futuro figlio. Sul corpo di lui, i partigiani scrivono: «I partigiani della Pasubio hanno giustiziato Osvaldo Valenti». Su quello della Ferida, invece, entrano nei dettagli: «Giustiziata perché collaboratrice del seviziatore Osvaldo Valenti». Non solo: la casa milanese della coppia viene svaligiata, dopo l’esecuzione. I partigiani, portano via un autentico tesoro (compresi dei cani di razza) di cui non si avrà più traccia. Luisa Ferida, pseudonimo di Luigia Manfrini Farnè, era nata 1l 18 marzo 1914 a Castel San Pietro Terme. Il nome d’arte Ferida trae spunto da uno stemma della casa paterna che raffigurava una mano trafitta, quasi premonitore della sua morte. Fin da subito, la giovane Luigia si distingue per la sua incredibile bellezza. Morto il padre, possidente romagnolo, viene mandata a studiare in un collegio di suore, ma il suo essere ribelle la porterà a fuggire a Milano, dove recita a teatro con Paola Borboni e Ruggero Ruggeri. Ben presto, il cinema si accorge di questa donna dai tratti unici. È il 1935 quando Piero Ballerini e Corrado D’Errico le affidano una parte per La freccia d’oro, grazie alla protezione del produttore Francesco Salvi, suo amante di 14 anni più vecchio, proprietario della Diorama. Dopo vari film, alcuni in coppia con Amedeo Nazzari o con Totò (Animali pazzi), la Ferida esplode letteralmente con Un’avventura di Salvator Rosa, diretto da Blasetti, il regista che sarà determinante per la carriera di Osvaldo Valenti. Nella pellicola Luisa interpreta la parte della contadina Lucrezia, della quale, Flaiano scrisse: «Luisa Ferida non è stata inferiore (a Rina Morelli, ndr) e i suoi periodici ruggiti veramente piacevoli». Tanto basta per lanciarla nell’olimpo delle dive dell’epoca. La sua recitazione naturale, mai artefatta, asciutta, grintosa, diversa da quella enfatica delle sue colleghe, la rendono unica. È sul set che conosce e si innamora del suo Osvaldo, di otto anni più grande di lei, con due matrimoni alle spalle, figlio di un barone siciliano e di un’aristocratica greca. Lei, ad onor del vero, in un primo momento mette gli occhi su Blasetti, costretto, fin dal primo giorno sul set, a sfuggire gli sguardi provocanti dell’attrice. Tanto da chiedere allo stesso Valenti di parlarle: «Evidentemente glielo fece capire talmente bene che nel giro di due giorni scattò il rapporto tra loro due», ricordò, ironicamente, il regista. La coppia, ormai di divi, lavora insieme ai film più importanti dell’epoca, come La corona di ferro, La cena delle beffe, La bella addormentata, I cavalieri del deserto, Orizzonte di sangue. I due si amano, fanno scandalo. È lei ad adattarsi agli eccessi (alcol, sesso e droga) della vita di lui, che la ricambiava di un amore perverso. Le malelingue li ricoprono di pettegolezzi, tra lussuria e atteggiamenti disinibiti. A casa, organizzano festini, splendide cene, balli e feste a base di champagne, caviale e cocaina. Finiscono sul lastrico e se fino a quel momento i due non avevano mai fatto riferimento al Fascismo (Valenti, in privato, era famoso per le parodie dei gerarchi fascisti) ecco che Osvaldo decide di aderire alla Repubblica Sociale. Una scelta che per Steno era figlia anche di «una necessità di droga, perché Valenti, fin dall’epoca in cui era un noto divo, si drogava e frequentava un giro di gerarchi fascisti che facevano largo consumo di stupefacenti, dispensandoli a destra e a manca». Nel 1944, si recano a Venezia per lavorare al Cinevillaggio, centro cinematografico della Repubblica Sociale Italiana. Qui, la Ferida, insieme a Valenti, gira Un fatto di cronaca, film diretto da Piero Ballerini (1944). È il loro ultimo lungometraggio. Almeno, a Lucia Manfrini, madre di Luisa, viene riconosciuta, dal ministero del Tesoro, dopo una accurata inchiesta dei Carabinieri di Milano, una piccola pensione, motivata dalla «morte per cause di guerra» della figlia