Il Messaggero, 26 giugno 2019
Fuga dei senatori cinquestelle
ROMA L’ultimo cambio di casacca, quello della pentastellata dissidente Paola Nugnes, che ha annunciato l’addio a M5S, rischia di mettere in seria difficoltà la maggioranza giallo-verde alla vigilia di una serie di voti parlamentare-chiave per la sopravvivenza della legislatura. La coalizione di governo a palazzo Madama si ritrova infatti con appena 3 senatori di scarto: a quota 164, rispetto ai 161 che segnano metà aula. Tra espulsioni e strappi, M5S ha perso per strada da inizio legislatura ben 12 parlamentari: 7 deputati e 5 senatori, passati quasi tutti al Gruppo Misto, con sole due eccezioni verso Forza Italia (Matteo Dall’Osso) e Salvatore Caiata (Fratelli d’Italia).
In realtà, un curioso sudoku dovrebbe portare nuovi senatori a vantaggio dei giallo-verdi. A fronte di Nugnes in transito da M5S al gruppo Misto, il Movimento recupererebbe infatti un eletto in Sicilia. Qui i pentastelalti avevano ottenuto talmente tanti voti da maturare il diritto a un numero di eletti superiore ai candidati. Proprio ieri la Giunta per le elezioni di palazzo Madama ha stabilito che il seggio siculo va assegnato a un candidato sempre di M5S non eletto di un altra regione (l’Umbria). M5S quindi manterrebbe i suoi 107 senatori. La Lega a sua volta perderebbe un seggio in Calabria, guadagnandone invece uno in Emilia Romagna a scapito del Pd Edoardo Patriarca. In Calabria, infatti, il riconteggio ha chiarito che 2.611 voti sono stati trascritti erroneamente alla Lega anziché a FI: la Giunta dovrebbe quindi attribuire il seggio all’«azzurra» Fulvia Caligiuri, togliendolo a Matteo Salvini, che risulterebbe eletto nel Lazio 1 (a danno di Cinzia Bonfrisco, eletta a Strasburgo).
Insomma, come ha detto Di Maio domenica, «i numeri per la maggioranza sono ben saldi». Almeno sulla carta. Resta però alta la tensione all’interno dei pentastellati con i rischi di nuove defezioni, stavolta non compensate da nessuna new entry.
«È vero dopo le elezioni europee pensavo e ho provato a spingere affinché il governo cadesse, ma adesso mi rendo conto quanto sia complicato. C’ho pensato bene, non è una strada percorribile». Alessandro Di Battista, sempre più isolato all’interno del M5S, ingrana la retromarcia. Tanto che ieri mattina si è sfogato con diversi esponenti del Movimento per far arrivare un messaggio di tregua a Luigi Di Maio. Ma il leader dei 5 Stelle al momento non ne vuol sapere. Sono troppi i dossier sulla sua scrivania a dargli pensiero: da una parte i rapporti con l’alleato, Matteo Salvini, dall’altra gli equilibri interni ai gruppi parlamentari. La situazione più critica è al Senato, dove la maggioranza gialloverde, dopo l’addio di Paola Nugnes, si regge su tre voti, con una discreta pattuglia di ribelli pentastellati pronta a puntare i piedi.
INSOFFERENZAA questa situazione si somma l’insofferenza di vari big non proprio vicini a Di Maio. Uno di questi è Nicola Morra, presidente della Commissione Antimafia, che venerdì scorso è andato a Milano per incontrare Davide Casaleggio. Il faccia a faccia fa parte di una serie di sondaggi che il il figlio di Gianroberto ha deciso di mettere in campo per capire come intervenire. Morra è da sempre critico con Di Maio: ricopre troppe cariche a discapito del M5S che nasce come intelligenza collettiva. Proprio Morra, dopo la scoppola delle Europee, propose una cabina di regia con 5 saggi per aiutare «Luigi» a superare questa fase. Sempre il presidente dell’Antimafia, che fa parte del 40% che su Rousseau si schierò per l’autorizzazione a procedere per Matteo Salvini sul caso Diciotti, ogni due per tre nei colloqui privati ripete concetti di questo tipo: dobbiamo puntare sulle nostre battaglie identitarie, costi quel che costi, altrimenti rischiamo di scomparire. Ritornare di lotta, dunque anche a discapito del governo. Morra, infine, ha una posizione molto netta anche sulle regole: «Il vincolo dei due mandati per me dovrebbe rimanere, solo in caso di crisi si può mettere al voto su Rousseau, ma tendenzialmente sono per mantenere le nostre regole».
Il Senato dunque come spauracchio, da tradizione.