la Repubblica, 26 giugno 2019
Intervista a Thom Yorke
OXFORD – “Dicono che prendiamo le cose troppo seriamente, ma è l’unico modo per raggiungere un obiettivo.
Siamo ambiziosi”. Era il 1991 e così si raccontava Thom Yorke nella sua prima intervista per una rivista cittadina. I Radiohead si chiamavano On a Friday e non erano ancora una delle band più famose nel mondo. Ma torna sempre qui, Yorke, nella sua Oxford. Giubbotto di pelle e capelli lunghi legati, al tavolo del bar nessuno importuna l’artista, 50 anni, che domani pubblica il nuovo album solista, Anima (lo presenterà in Italia il 16 luglio a Barolo, il 17 a Codroipo, il 18 a Ferrara, il 20 a Perugia, il 21 a Roma). «È piccola ma internazionale», dice in italiano (da anni è fidanzato con l’attrice siciliana Dajana Roncione), «camminando qui senti molte lingue diverse, come a Roma. Per l’università c’è un continuo viavai di persone da tutto il mondo. E questo mi rende particolarmente orgoglioso di Oxford in questi tempi di Brexit».
Come finirà?
«Ormai è un calice avvelenato. Sono tutti esausti e vogliono solo chiudere la pratica, finiremo con un “no deal”.
Senza un secondo referendum l’alternativa è il caos. Fa paura».
Nel brano, “The Axe” canta “I thought we had a deal” ("Pensavo avessimo un accordo")…
«La canzone più triste del disco, ma in realtà parla del rapporto con la tecnologia. Chiediamo alle macchine di aiutarci, come un bambino in una stanza piena di giochi, vorrebbe giocare ma i soldatini sono lì che lo fissano, è una relazione a senso unico. Allo stesso modo ci affidiamo alle macchine, alla tecnologia. Una sensazione di disperazione».
La musica aiuta?
«Sì, ma non come catarsi. Mi serve la ricerca di nuove cose. Alla fine mi sento orgoglioso e arricchito. E mi do un po’ di tregua. Fino alla volta successiva». (ride)
È stato così anche lavorare alla colonna sonora di “Suspiria”?
«Stranamente sì. Non ha senso se ci pensi: è un film dell’orrore, non ti aspetti di sentirti… sollevato. Ma lavorare con Luca (Guadagnino, ndr) è stata una sfida, mi dava una licenza per sperimentare».
Lavorerebbe con altri registi?
«Molti. Quello di The hateful eight… Sì, Tarantino. Serie tv? Mmm. Riesco a fare una cosa alla volta, lavorare per i film prende tutta la concentrazione».
Dopo l’album solista torneranno i Radiohead? Il prossimo anno saranno venti anni dall’album della storica svolta elettronica, “Kid A”.
«Abbiamo in programma qualcosa, ma è presto. In realtà Kid A per noi non era un cambiamento così drastico. Sono sempre stato appassionato di elettronica. Quando facevo il dj ai tempi dell’università alternavo pezzi elettronici con vinili dei Nirvana. Per me aveva senso».
È ancora in polemica con Spotify e YouTube?
«Devo scegliere le mie battaglie. Non posso reinventare tutto ogni volta.
Ora le cose sono cambiate ancora.
Siamo tutti in competizione per non essere spazzati via dal flusso costante di nuova musica. Tutti cercano di attirare l’attenzione. Un po’ mi piace: prima ogni mossa era scrutinata e ora tutto succede in continuazione e non conta niente. Gli algoritmi guidano lo stile della musica copiando il passato. Tutti fac-simile. Ma come si esce da questa mentalità da playlist?».
La musica live fa la differenza?
«Quando attaccavo Spotify perché paga poco mi rispondevano “tanto i soldi li fai con i concerti”. Ok, ma metti che sono un vecchio artista italiano e non posso più esibirmi perché è successo qualcosa nella mia vita, dovrei finire per strada?».
Conosce musica italiana?
«Un po’, adoro Rosa Balistreri. Dajana me l’ha fatto ascoltare. Una voce incredibile, intensa, mi fa vibrare».
La sua compagna ha interpretato Loredana Bertè nel film tv “Io sono Mia”.
«Era molto ansiosa del suo giudizio.
Alla fine si sono incontrate ed è stata molto gentile con Dajana, l’ha aiutata. Una bella esperienza».
A lei piacerebbe recitare?
«No, no. La mia bocca è per cantare, non parlare, cioè non in pubblico».
Però per l’album ha realizzato un corto, da domani su Netflix.
«È una collaborazione con Paul Thomas Anderson e Damien Jalet, il coreografo di Suspiria. È un po’ danza e un po’ recitazione. Abbiamo girato a Praga e in Francia in una cava di bauxite in Provenza dove Jean Cocteau girò parte della trilogia di Orfeo. Non avevo mai fatto niente di così folle nella mia vita. Io e Dajana non avevamo mai collaborato, è stato bello vedere come lavora. L’idea di Paul è nata dai vecchi cortometraggi, come quelli comici realizzati da Max Linder che hanno ispirato Charlie Chaplin. Erano lunghi 12 minuti, perché quella era la lunghezza della bobina. Anche il nostro è divertente e un po’ spaventoso. E romantico».
Parlando di film, ha visto “Bohemian Rhapsody”? Disse che Brian May è uno dei motivi per cui iniziò a suonare la chitarra…
«No, sono un fan della vecchia scuola. Non ho bisogno di un film che cambi la mia idea dei Queen. Cioè quella di un undicenne ossessionato seduto in macchina con il padre ad ascoltare di continuo il Greatest Hits».
A qualcuno verrà in mente l’idea di un film biografico sui Radiohead.
«Ma spero di essere nella tomba allora. E comunque avrò lasciato alcune regole scritte».
Chi vorrebbe per interpretarla?
«Qualcuno un po’ più giovane. E un po’ più bello».
C’è una canzone di “Anima” in cui canta “è come l’erba": le droghe hanno un ruolo nei Radiohead?
«(ride) Era una battuta… Però sì, ma non tanto quanto si potrebbe pensare. L’erba in studio può essere utile. Ma se arrivi al punto in cui pensi di averne bisogno per creare allora devi fermarti. Perché inizia a scavare nelle tue insicurezze».
Secondo la leggenda Michael Stipe dei R.E.M. l’avrebbe aiutata a rimanere con i piedi per terra.
«Quando eravamo in tour insieme mi diceva “Dai, andiamo a cena con gli U2”. E io: “No, no, ho paura”. Mi ha insegnato a gestire certe situazioni.
Finito il concerto io volevo chiudermi nel tour bus. Avevo bisogno di essere trascinato fuori. In questo lavoro bisogna avere senso dell’umorismo.
Non puoi prendere sul serio il modo in cui le persone ti guardano…».