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 2019  giugno 26 Mercoledì calendario

A lezione di vita dal mio cane (e da Kafka)


C’è un messaggio in segreteria. È sua madre: «Per favore chiama. È per le ultime volontà». Le ultime volontà: è stanco di sentire quelle parole. Non passa un mese senza che venga sollevato quel tema – le ultime volontà di sua madre rispetto al suo corpo e alle sue proprietà. Lui vive a Providence. Lei si è rifugiata lontano dal mondo, in un villaggio della Catalogna, lontano seimila chilometri. Che cosa dovrà scoprire ancora rispetto alle ultime volontà? Le telefona. «Che c’è di nuovo, mamma? Come va la salute?». La sua salute vacilla, è quello il tema della telefonata. «Ieri ho visto uno specialista. Per andarci ho dovuto prendere una macchina con l’autista. Hanno ridotto il servizio di autobus, come tutto il resto al giorno d’oggi. Il medico mi ha detto che mi devo preparare al peggio e che non posso più vivere sola». «Prepararsi al peggio». Per cosa sta quest’eufemismo – “il peggio”?
Sua madre ignora la domanda. «Ho dato disposizioni al mio agente letterario perché d’ora in poi mandi a te ogni comunicazione. Sarai tu a dover decidere, decidere di diritti e royalties, eccetera. Presto le comunicazioni cominceranno a scemare, man mano che si dimenticheranno di me, e allora tu sarai di nuovo libero».
Sua madre è, o era, una scrittrice. Ha smesso di scrivere, per quanto ne sa, da quando si è trasferita al villaggio cinque anni fa. Il mondo la sta già dimenticando. Chissà se lei lo ha capito. Quello che gli mette sulle spalle non è un gran fardello. «Di che cosa hai paura, mamma? Cosa ti ha detto di preciso lo specialista?».
«Ha parlato di dementia. Mostro segni di dementia. La gente che ho intorno li vede meglio di me, ma qualche volta li riconosco anche io. Dice che non posso continuare a vivere da sola. Avrò bisogno, nella migliore delle ipotesi, di qualcuno che stia con me, che mi accudisca». «Nella migliore delle ipotesi?». «Non ha parlato di un istituto, ma la parola aleggiava nell’aria. Forse dovrò trasferirmi, dovrò essere trasferita, in un istituto. Ma io non me la sento, John. Devo farla finita. È per questo che ho chiamato».
«Ma certamente quest’ipotesi, l’ipotesi del ricovero in un istituto, è lontana, lontanissima. E comunque non sarà necessario. Puoi venire a stare da noi». «Grazie. Lo so, ti credo. Ma non può funzionare. Non ho intenzione di affliggere te e Norma. Una vecchia strega che si aggira per casa. No, dobbiamo sistemare le mie cose finché sono ancora in grado di ragionare. Poi sarò libera di farla finita».
Farla finita. Lui non sa cosa dire. Perché dietro questo discorso delle ultime volontà sente qualcos’altro, un appello: Salvami! Salvami, figlio mio! Un appello velato da una grigia nube per tenere in piedi la finzione di loro due, esseri razionali che discutono dei programmi per il futuro. Sua madre un essere razionale! Che assurdità! Dal giorno in cui è nato sua madre non ha fatto che sfogare sulla pagina un qualche dramma interiore. Ogni parola che scrive esprime qualche turbamento interiore. Anche questa telefonata fa parte di uno di quei drammi, quello intitolato La morte di Elizabeth Costello.
«Vengo a trovarti, mamma. Ma non posso venire subito. Ho ancora da fare all’università. Prendo il volo di venerdì. Va bene, faccio in tempo venerdì?».
Arriva a Barcellona all’alba dopo una notte insonne in aeroplano. Noleggia una macchina e guida per due ore tra le montagne fino al villaggio di San Juan, bussa alla porta di sua madre. È lei stessa ad aprirgli. È molto colpito da quello che vede. L’ultima volta era dritta e forte, una donna di ferro. Ora sembra accartocciata. Le guance sono incavate, la pelle sembra di cera; quando l’abbraccia sente odore di abiti non lavati e di vecchiaia. «Come stai, mamma?». «Agli sgoccioli, come vedi. Hai fatto colazione? Vorresti un tè? La donna che fa le pulizie arriva tra un attimo. Ci sediamo?». La aiuta a sedersi. La casa è nel caos. Chiunque sia a fare le pulizie non le fa seriamente.
«Dimmi tutto, ogni dettaglio. Hai parlato di demenza ma non ne vedo segni». «Fermati un poco e presto li vedrai. Dimentico i nomi. Dimentico le parole. Dimentico dove sono. Poco tempo fa mi hanno trovato in aperta campagna, in un viottolo, in camicia da notte. Non avevo idea di come ci fossi arrivata. Mi hanno tenuta in ospedale per tre giorni, e mi hanno fatto tante analisi, tutte le possibili analisi. Demenza iniziale, hanno deciso alla fine: dementia temprana».
E non c’è speranza? Non c’è speranza di recupero? Sembra che suonare uno strumento aiuti a rallentare il processo. O anche giocare a scacchi». «Certo che c’è speranza. C’è sempre speranza. Si vive di speranza. Come potremmo vivere altrimenti? Ma la speranza è come la grazia, non ci si può contare. Se ci conti non succede. Lo stesso con gli angeli. Come affidarsi a un angelo che vegli su di te, che ti difenda da ogni male. Non serve a niente. È questa la legge. È così che va questo nostro universo. Niente angeli. Niente interventi divini. Sennò sarebbe troppo facile la vita. Perciò: sì, c’è speranza. Ma non per me. Lo ha detto Kafka. È uno dei suoi famosi paradossi. Dei suoi famosi aforismi. Presentato come una battuta, era il suo stile. Come un prestigiatore. Il cappello che esce dal coniglio. Ma tuttavia è vero, vero per lui, per te e per me. C’è speranza, ma non per noi. La salvezza per noi, se viene, viene a sorpresa. Una sorpresa sconvolgente».
«Kafka. Ricordi il suo nome. Ricordi le sue parole. Quello che dici è sensato. Questo non è il comportamento di una persona affetta da demenza». «Demenza iniziale. Quando la demenza vera, quella vera e propria, mi avrà travolto, avrò dimenticato tutto. Tutti i nomi, poi tutte le parole, una dopo l’altra fino a che non resterà più niente di me. Per questo ti ho chiesto di venire, ti devo mostrare dove tengo le cose. E quando avremo finito, ho pensato di proporti una scelta. O te ne torni alla tua università in America, ai tuoi studenti e ai tuoi impegni e io me la vedo da sola; oppure aspetti qui in Catalogna mentre sbrigo la faccenda. Preferirei la seconda. Mi sembra più pratico, più efficiente. Così non dovrai fare un altro viaggio. Ma questo potrebbe essere troppo per te. Se è così, capisco».
Sbrigo la faccenda. Non riesce a credere a quello che sente. «Che vuol dire, mamma, sbrigo la faccenda?». «Lo sai cosa voglio dire John. Sono parole crude, ma perché la faccenda è cruda. Mi elimino. Mi uccido. Metto fine a questa vita che è andata avanti troppo a lungo. Ho i mezzi, il necessario. Ho le pillole. Non ho paura».
Lei dice che non ha paura ma lui non le crede. Tutti hanno paura. «Può essere utile se contatto il tuo medico, mamma? Parla inglese? Vorrei capire bene che cosa intendeva esattamente dicendo che non c’è speranza. Per quanto ne so i medici non dicono mai, non c’è speranza. Offrono sempre un raggio di luce, un cauto, professionale, raggio di luce». «No. Questo non è il tipo di caso in cui c’è un raggio di luce».
Si apre la porta. La donna che bada alla casa si affaccia in soggiorno, fa un cenno del capo e poi scompare in cucina. «Mi proponi di scegliere, mamma, ma non è una vera scelta e tu lo sai. Io non me ne posso andare sapendo quello che so. Rimarrò con te. Su questo non c’è dubbio. Ma voglio che tu riconosca una cosa: che mi hai chiamato, che mi vuoi vicino a te, perché non lo puoi fare da sola – non puoi sbrigare la faccenda come dici. Vuoi che ti tenga la mano. Anzi non solo. Vuoi che ti dica, non farlo. Vuoi che ti dica, non chiudere la porta, c’è sempre speranza.
Ti voglio raccontare una storia, mamma, una storia sulla speranza. Avevamo un cane, uno spaniel di nome Demetra. Tu non l’hai mai incontrata ma forse te ne avranno parlato i bambini – a loro piaceva tanto. Da vecchia Demetra ha avuto un cancro, un enorme tumore alla spina dorsale. Ce ne siamo accorti troppo tardi. Il veterinario non poteva fare altro che alleviare un po’ il dolore. E lei stava stesa in una cesta in cucina ad aspettare la morte. Ma non pensava mica ad arrendersi, a mettere fine ai suoi giorni. No, se le mettevi un orecchio sulla gola sentivi un ringhio sordo e continuo di resistenza, di sfida al fato. Non aveva speranza, non sapeva nemmeno cosa fosse la speranza, eppure viveva nella speranza. La speranza era diventata l’espressione stessa della sua esistenza, la lotta di ogni cellula viva del suo corpo per continuare a vivere. Un corpo come il mio, come il tuo. Un corpo animale.
Così finisce la storia di Demetra. Certo che è morta. Tutti moriamo. Ma forse puoi imparare qualcosa da lei». – Traduzione di Maria Baiocchi