la Repubblica, 26 giugno 2019
In memoria di di Vittorio Zucconi
Quando – un mese fa – ho saputo che Vittorio Zucconi non c’era più, l’onda della tristezza mi ha portato subito due immagini. La prima viene da una pagina del suo ultimo libro, Il lato fresco del cuscino : quella in cui parla di un odore speciale, la «deliziosa puzza del piombo fuso». Da figlio d’arte in campo giornalistico, lo raccontava come un segnale mistico, «l’avvertimento di una predestinazione manifestata attraverso le narici». Aveva, fra i ricordi, quello del linotipista che per gioco componeva sulla tastiera il nome Vittorio Zucconi: «Eccolo lì, guarda, il mio nome, il nome di un bambino, sul giornale». La seconda cosa a cui ho pensato è una grossa scatola di cartone, custodita nella mansarda della casa in cui sono cresciuto. Fin dalla prima adolescenza, appassionato ai giornali, tiravo via pagine e pagine, le custodivo in disordine – piene di segni, di sottolineature fatte con l’evidenziatore verde o azzurro. Una specie di scuola quotidiana, un gigantesco libro di testo a fascicoli giornalieri. Un romanzo storico scritto al presente. Certo di avere conservato decine di articoli di Zucconi, ho tuffato il naso nello scatolone. E c’era quell’odore speciale di oggetto tipografico. E c’era il nome di Vittorio Zucconi ripetuto sulle tante prime pagine di Repubblica che avevo messo via. Così, rimettendole in ordine, è stato come fare una cronologia universal- personale, rifare un pezzo della storia del mondo agganciandola alla storia mia, di me che leggevo, crescevo, provavo a capire. E in un’estate di fine Novecento soffrivo con Baggio e Del Piero sui campi francesi, e con Zucconi, che sbraitava: «E ti viene una voglia di ingrugnirti, di mandare all’inferno questa squadra di brocchi, questo plotone di burbe che sembrano sempre troppo lente, troppo ruvide, troppo fragili, troppo basse, troppo stordite». Non arrabbiamoci mai troppo, aggiungeva, arrabbiarsi con l’Italia del calcio è come arrabbiarsi con l’Italia. Serve davvero? Eliminata ai rigori, comunque. Zucconi ancora non lo sapeva, ma forse lo sentiva. D’altra parte, sfogliare vecchi giornali dà questa curiosa sensazione di toccare con mano il muro che ci divide dal futuro. Ciò che sta per avvenire è lì: immaginato, desiderato, temuto. Come la sparatoria che, per mano di tale Russell Weston detto Rusty, crea il panico negli Stati Uniti nelle stesse ore – luglio 1998 – in cui Clinton è chiamato a comparire per le vicende del Sexgate. Ecco, l’America! Zucconi me la faceva arrivare in camera: parlando – dal grande «dovunque americano» – di college, di prati tagliati, di torte di mele, di storie che, in quanto singolari e in quanto umane, fanno sempre la differenza. E se tutti ricordano dov’erano l’11 settembre del 2001, Zucconi racconta dov’era anche l’anno dopo: in un giorno «di assoluta perfezione settembrina proprio come quell’altro, e vedere soltanto un buco che sembra un cantiere ed è invece la fossa comune dove sono sepolte per sempre 1400 persone fuse senza nome nell’acciaio». Viene un po’ da piangere, per quelle storie e per chi le ha raccontate, viene un po’ da piangere come per tutto ciò che manca e ha fatto parte della nostra vita: ecco cosa abbiamo vissuto, da vicino o da molto lontano, ecco come i nostri giorni qualunque sono stati infiltrati dalla Storia come da una perdita d’acqua. Distratti, innamorati, stanchi, talvolta semplicemente arresi, abbiamo sfogliato giornali, saputo di città in cui la gente si rimetteva in coda davanti a banche che non hanno più un kopeko, e «il nostro inviato Vittorio Zucconi» è lì, dove finisce la favola di un rinascimento russo, davanti al chiosco della fioraia dell’Arbat, a Mosca, che ha chiuso perché nessuno le comperava più un fiore. O è lì, dove comincia una speranza, e una notte che ha cambiato tutto – quella dell’elezione di Barack Obama – «si stempera in un giorno di esausta, civile normalità». Strano ma tenace, tenacissimo questo legame – un lettore, e quella firma sul giornale. Come un patto, un’amicizia tra sconosciuti. La tua giornata anonima, non memorabile; il giornale piegato sul tavolo, un pezzo di Zucconi da leggere. Una mattina d’estate come questa, quasi vent’anni fa; io, un adolescente esaltato dalla pagina che ha appena letto. La rileggo a voce alta per mia madre: mi piace come Zucconi gira le frasi, come trova le parole per parlare di un condannato a morte, e d i una «banca mondiale della pietà» che si oppone a una macchina della condanna capitale in grado di spegnere vite «senza un ripensamento, senza un dubbio». Il titolo del pezzo è “La civiltà del dubbio” – che poi, senza volerlo, è un’epigrafe sempre valida per il vero giornalismo. Zucconi, pragmaticamente, ne riassumeva i compiti con una serie di verbi all’infinito: «Restare nelle lunghezze implacabili della pagina, cercare di non stroncare il lettore nella noia, inventarsi un proprio stile, avere paura e fingere di non averla». Sto ancora un po’ con la testa piegata sul mio scatolone, come su un pozzo di ricordi. E sento che è un peccato non essere in tempo per dirgli grazie. Comunque, grazie: per l’intensità; ogni pagina di Zucconi era “realtà aumentata”, e io non posso dimenticare, e devo dirlo, dirlo da lettore, che mi manca molto, che ci mancherà sempre quella firma – Vittorio Zucconi – stampata su questo giornale.