la Repubblica, 26 giugno 2019
La corsa all’oro. Dazi e tensioni il Medio Oriente fanno crescere il valore del prezioso metallo
MILANO – Google, Amazon, Facebook & c. dovranno farsene una ragione. Il vento è cambiato. Il mondo – causa guerra dei dazi, economie al palo e tensione in Medio Oriente – è un posto più insicuro. E i mercati, come capita sempre quando c’è grande confusione sotto il cielo, aprono l’ombrello e rilanciano un classico della finanza globale: la corsa all’oro. I titoli dell’hi-tech non tirano più. Sostituiti nei portafoglio di grandi e piccoli investitori dal bene-rifugio per eccellenza: lingotti, pepite, monete, gioielli, titoli di aziende minerarie travolte da una pioggia di denaro che ha spinto al rialzo del 12% nell’ultimo mese le quotazioni del metallo giallo.
Tutto quel che è oro, in questi giorni, luccica. Le prime ad accorgersene sono state le grandi banche centrali «che nel 2018 ne hanno comprate 651 tonnellate, il record da 49 anni», dice Carlo Alberto de Casa, operatore della londinese ActivTrades. La guerra commerciale tra Donald Trump e la Cina, i focolai di guerra nel Golfo Persico e i tassi in ribasso hanno fatto il resto: i prezzi – dopo anni di torpore attorno a quota 1.200 – hanno messo il turbo. E questa corsa ha regalato un bell’assist (e qualche potenziale grattacapo) anche all’Italia: il nostro Paese è il terzo al mondo – dopo Usa e Germania per consistenza di riserve auree. Nei caveau della Banca d’Italia ce ne sono 2.451 tonnellate e il loro valore è balzato in quattro settimane da 100 a 112 miliardi. Un tesoretto su cui la maggioranza gialloverde – malgrado le barricate di Bce e Mario Draghi – ha messo gli occhi sperando di riuscire a metterci pure le mani. Obiettivo: usare i lingotti della banca centrale per far quadrare i conti dello Stato e finanziare le promesse elettorali.
Il fascino sottile dell’oro – «l’unica moneta che vale sempre e si cambi ovunque», dice Roberto Gennari di Italpreziosi – ha figliato una ricca (e qualche volta insidiosa) offerta anche per i piccoli risparmiatori. In vendita ci sono due prodotti: l’oro fisico – che si può vedere e toccare – e quello finanziario. Quello “di carta” è fatto di derivati scambiati in Borsa (con commissioni tra lo 0,5% e l’1%) che seguono le quotazioni di mercato. Quello reale si può trovare in tante forme: lingotti («da 5 grammi a un chilo, vanno a ruba anche come regali per figli e nipoti», dice Gennari), monete come sterlina inglese o Krugerrand e gioielli «Ognuno di questi strumenti ha i suoi pro e i suoi contro», spiega de Casa, autore per Hoepli de “I segreti per investire nell’oro”. «I lingotti bisogna custodirli – dice de Casa – e casseforti o cassette di sicurezza hanno un costo annuale». Le monete hanno commissioni più alte – dal 4 all’8% – e una forbice tra prezzo d’acquisto e vendita e molto ampia: un Marengo d’oro da 5,81 grammi si poteva comprare ieri a 264,96 euro e vendere a 225.
L’offerta comunque non manca e il boom ha portato un po’ d’ottimismo anche nei tre poli auriferi (Vicenza, Arezzo e Valenza Po) nazionali. L’Italia non ha miniere. Ma tra compro-oro, gioie e denti ha riciclato e rimesso sul mercato 76 tonnellate di metallo gial lo nel 2018, meno solo di Cina, Turchia e Usa. Molte nostre aziende sono leader della corsa all’oro nel più improbabile dei giacimenti: la discarica. Recuperano scarti di oreficeria, smartphone, schede di computer e consolle di videogiochi. Filoni inusuali ma redditizi: da un milione di telefonini, manco fossero il Klondike, si possono ricavare fino a 37,5 kg. di oro.