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 2019  giugno 26 Mercoledì calendario

In cerca di un partito che non c’è

A volte la domanda crea l’offerta ma a volte non ci riesce a causa di un contesto sfavorevole. Si avverte benissimo nel Paese una diffusa, inespressa, domanda di un nuovo partito. È la richiesta di coloro che avversano le attuali forze di governo ma contemporaneamente – come le ultime elezioni europee hanno dimostrato – non sono attratti dalle opposizioni, Partito democratico e Forza Italia. Tuttavia, ciò non basta a generare un’offerta (un nuovo partito) in grado di intercettare la suddetta domanda diffusa. Sarebbero necessarie diverse condizioni favorevoli. La più importante di tutte è una leadership così energica e convincente da poter imporre entro il mercato politico, nel pochissimo tempo che resta prima delle elezioni, un nuovo brand. Si noti che, con leader adeguati, l’impresa non sarebbe impossibile. Oggi la mobilità elettorale è assai alta, non c’è mai stata tanta disponibilità di tanti elettori a spostarsi da una parte politica all’altra a seconda delle offerte di mercato. Con la leadership giusta e l’offerta giusta (idee non confuse sul che fare), un nuovo partito potrebbe benissimo ottenere un forte successo elettorale. Ma solo a quelle condizioni.
Nel frattempo occorrerebbe sgomberare il campo dalla tanta confusione che le discussioni intorno a questo tema hanno creato.
C ome dobbiamo definire, in primo luogo, gli elettori a cui tale nuova (ipotetica) formazione politica dovrebbe rivolgersi? Moderati? Liberali? Centristi? E, ancora, il nuovo partito dovrebbe, fin dalla nascita, legare le sue sorti a un’organizzazione politica già esistente (come propone Carlo Calenda) oppure dovrebbe contare, in sede elettorale, solo sulle proprie forze e lasciarsi le mani completamente libere in vista delle alleanze parlamentari (dopo il voto)?
Cominciamo dal primo punto. Moderati, liberali, centristi: non sono sinonimi. Ha ragione il sindaco di Milano Giuseppe Sala ( Corriere, 21 giugno) quando dice che è assurdo metterla tutta sul piano della moderazione, come se, per catturare elettori, bastasse dire «cose moderate». Ovviamente, ciò è ridicolo. L’unico possibile significato della parola «moderato» è non-estremista. In questo senso, un moderato è uno che non sopporta né le urla né le semplificazioni/banalizzazioni di un mondo così complesso come il nostro in cui tipicamente indulgono gli estremisti. Ma, per il resto, il termine è politicamente indeterminato: può sposarsi con un ampio e assai diversificato ventaglio di proposte politiche. Per esempio (e contrariamente a quanto si sente dire) un moderato non è necessariamente un liberale: erano moderati (ma non liberali) quegli elettori della Democrazia cristiana del tempo che fu che accettavano come normale un livello di intrusione statale nella vita economica tale da suscitare la ripulsa dei (pochi) liberali allora in circolazione. Ancora, un moderato senza ulteriori qualificazioni può credere (o fingere di credere, magari per quieto vivere) che l’attuale scandalo del Csm sia il frutto della presenza di alcune mele marce. Un liberale, invece, sa che stiamo parlando di un ordinamento e di prassi giudiziarie, nonché di un rapporto malato (da molto tempo ) fra magistratura e politica, la cui incompatibilità con il buon funzionamento di una democrazia liberale è, almeno ai suoi occhi, evidente.
Lasciamo dunque perdere l’insulsa discussione su moderati e liberali. Non se ne può venire a capo. Oltre a tutto, distrae dal vero problema: le cose da proporre, le idee sul che fare.
Che dire però del «centro»? Il partito che si ipotizza sarebbe un partito «centrista»? Questo tema è più interessante del precedente. Perché ci si sposta dal tentativo (ridicolo) di appiccicare etichette sugli elettori a una riflessione sulle dinamiche che consentono la sopravvivenza delle democrazie. È in questa prospettiva che anche il termine «moderazione» torna ad acquistare un significato non banale. Le democrazie, per lo più, muoiono quando «si svuota» il centro, quando gli elettori sono indotti a spostarsi verso l’estrema sinistra e verso l’estrema destra. Quando ciò accade la democrazia, prima o poi, si spezza come un grissino. È accaduto, fra le due guerre mondiali, all’Italia, alla repubblica di Weimar, alla repubblica spagnola. È accaduto in Cile nel 1973. È accaduto anche in altri luoghi. È in questo senso che, nel solco di una sapienza antica, si può dire che la democrazia liberale sia, per sua essenza, un regime politico moderato.
Ciò che dà stabilità alle democrazie è dunque l’addensarsi degli elettori al centro. Non è necessaria, sempre e comunque, la presenza di un partito di centro. Ad esempio, se c’è una legge maggioritaria e due partiti (o due aggregazioni partitiche) che si alternano al governo, la democrazia è stabile se gli elettori centristi sono in quantità tale da impedire al partito di volta in volta vincente di fare politiche troppo condizionate dagli estremisti. L’esperimento maggioritario in Italia ha funzionato male (purtroppo) anche perché gli elettori centristi – che pure c’erano – non erano una massa critica sufficiente per neutralizzare politicamente gli estremisti.
In regime di proporzionale (e noi siamo di nuovo lì), un partito di centro è indispensabile per dare voce agli elettori centristi che ci sono o a quelli che potrebbero esserci (o che potrebbero ritornare al centro) in presenza di un’offerta politica adeguata.
Non c’è nessuna garanzia che il partito di centro nasca. Alla lunga, però, la sua assenza, conferendo un peso sproporzionato agli estremisti, finirebbe per mettere a rischio la democrazia liberale. Tanto più in un’epoca in cui il quadro internazionale è in movimento, in cui non ci sono più gli stringenti vincoli esterni di un tempo.
Il suddetto partito, naturalmente, sarebbe politicamente credibile e appetibile solo se, per nascere, non dovesse aspettare l’autorizzazione di qualcuno. E se fosse libero da vincoli elettorali con chicchessia. Dovrebbe dire agli elettori «votatemi – contro tutti gli altri – per il valore delle mie proposte, punto». Con il sottinteso che, in regime di proporzionale, le alleanze di governo si discutono sul serio solo dopo il voto.