Corriere della Sera, 26 giugno 2019
La procedure d’infranzione vista con gli occhi di Trump
Nel suo The Art of the Deal, un manuale dell’immobiliarista che fu, Donald Trump fissa nel 1987 alcuni principi poi tornati attuali trent’anni dopo. Numero uno: «Pensa in grande»; poi, «fai leva sulla tua forza»; infine, «quando ti trattano male, reagisci duro». Non solo questi consigli sono diventati la dottrina di Trump alla Casa Bianca. Per imitazione, o sentire comune, informano lo stile con cui vari Paesi a guida nazional-populista gestiscono i rapporti con il mondo. Compresa l’Italia davanti al rischio di una procedura europea sui conti.
La promessa di una «flat tax» da 15 miliardi mentre ne mancheranno già 23 nel 2020 e altri 28 l’anno dopo è l’equivalente italiano di minacciare i dazi sul Messico se quest’ultimo non ferma i migranti. L’idea dei mini-Bot come mezzo di pagamento parallelo ricorda l’impegno di Boris Johnson a imporre una Brexit traumatica se Bruxelles non rinegozia l’uscita: una promessa di infliggersi danni gravi pur di infliggerne agli altri. Quanto a questo, in privato i dirigenti leghisti descrivono i mini-Bot esattamente così: uno strumento per «aumentare il potere negoziale dell’Italia» con l’area euro, se e quando il Paese si trovasse tagliato fuori dalla liquidità della Banca centrale europea come nel 2015 accadde alla Grecia (chiusi i bancomat, Atene capitolò). Persino l’idea di riportare la Banca d’Italia sotto l’ala della politica è parte della stessa strategia: far vedere che si hanno gli strumenti per manovrare l’uscita. È un voler fare leva sulla propria forza e rispondere duro – Art of the Deal – come quando Trump mette dazi sulla Cina per frenarne l’ascesa.
Naturalmente l’Italia non è l’America. La sua resistenza agli choc autoinflitti è infinitamente minore. Sarebbe ipocrita però sostenere che queste provocazioni non abbiano sortito effetti, perché almeno rendono chiaro quale sia la vera posta in gioco: non qualche decimale di deficit, ma il futuro dell’Italia nell’euro. E quest’ultimo riguarda sì la volontà degli attuali governanti, ma anche le probabilità di poter evitare un serio incidente per un Paese che ha visto il suo prodotto annuo per lavoratore – caso unico – scendere per decenni (in Germania, Francia, Spagna ci sono stati aumenti a doppia cifra).
Il negoziato sui conti dell’Italia si innesta qui. Alcuni interlocutori europei si chiedono se mettere l’Italia in procedura adesso vincolerebbe il governo a comportamenti più prudenti o se invece darebbe alla Lega l’innesco che cerca per andare al voto a settembre – prima di pagare il conto del prossimo, difficile bilancio – e fare così delle elezioni un referendum fra flat tax e l’odiata (quanto presunta) «austerità europea». Poiché il governo oggi riesce a rassicurare solo sui saldi del 2019, la partita resta aperta. Dall’anno prossimo in poi infatti i conti vanno totalmente fuori linea e il Trattato dà alla Commissione il potere di sanzionare anche «se ritiene possa determinarsi un disavanzo eccessivo in futuro».
Deciderà il 2 luglio il collegio dei commissari, divisi oggi fra chi vuole dare un segnale all’Italia subito e chi esita sui tempi. Possibile che si soprassieda fino a novembre, per non dare a Matteo Salvini il pretesto che il leader leghista sta cercando. Un’altra ipotesi molto studiata a Bruxelles è di aprire la procedura, ma rimandare ogni richiesta sostanziale di correzione a fine anno quando l’Italia presenterà il suo bilancio 2020. Nell’illusione, sempre, di poter bluffare come un immobiliarista nella New York anni 80.