26 giugno 2019
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Biografia di Isabelle Adjani
Isabelle Adjani (Isabelle Yasmina A.), nata a Parigi il 27 giugno 1955 (64 anni). Attrice. Cantante. Tra i numerosi riconoscimenti ricevuti, un Premio all’interpretazione femminile al Festival di Cannes (Quartet e Possession 1981), un Orso d’argento per la migliore attrice al Festival di Berlino (Camille Claudel, 1989) e – primato ineguagliato – cinque Premi César alla migliore attrice (Possession, 1982; L’estate assassina, 1984; Camille Claudel, 1989; La regina Margot, 1995; La journée de la Jupe, 2010). «Esistere e sparire fa parte delle mie libertà» • Figlia di un algerino e di una tedesca, crebbe nel sobborgo parigino di Gennevilliers, in un ambiente familiare poco sereno. «Augusta ha 25 anni, è sposata e ha due figli piccoli, quando incontra Mohammed, diciottenne algerino. Lui si innamora pazzamente della bella tedesca e perdono la testa. Si fanno ribattezzare, diventano Gusti e Jim. Jim minaccia di uccidere tutti se Gusti non lo segue. Lei decide di lasciare tutto per vivere questa storia, la cui bellezza è subito rovinata da un lato oscuro. “Come si fa a continuare ad amare un uomo che ti ha strappata ai tuoi figli?”, si chiede oggi Isabelle. […] Dovevano andare a vivere negli Stati Uniti: avevano offerto a suo padre un posto di autista e giardiniere, a sua madre quello di cameriera. Ma lei non voleva viaggiare incinta. “Si sono sotterrati nella banlieue parigina, esattamente come me, che ho rifiutato la vita americana. Ma non è mai troppo tardi per rompere con la depressione familiare…”» (David Foenkinos). In quanto a sua madre, «la vedevo insoddisfatta, sradicata, come strappata a un’altra vita. Sembrava sempre turbata da qualcosa di inconsolabile. Cercava di essere presente, senza riuscirci. E questo malessere si traduceva in gelosia. Ero molto infelice. Io non ho mai avuto complicità con lei. Mia madre non sopportava che leggessi, che mi facessi una cultura. C’era un coprifuoco letterario a casa. Non voleva che mi realizzassi, non sopportava il mio lato intellettuale. Anche mio padre era un intellettuale mancato. Ci puniva…». «Mio padre era autoritario, vivevamo in un piccolo appartamento e non accettava l’idea che con i miei guadagni dessi una mano a casa. Era algerino, musulmano. In casa, solo uno specchio, in bagno: se vi restavo troppo, diceva che l’avrei sporcato. Per una ragazzina sono cose difficili da sentire» (a Valerio Cappelli). «Mio padre […] mi obbligava ad abbassare lo sguardo in pubblico, e soprattutto a nascondere la sofferenza che sentivo giorno e notte. […] Quando ero piccola, vomitavo nel sonno in continuazione. Mi svegliavo in preda ad un’angoscia che mi ha sempre resa fragile e ipersensibile». «Decide di divenire attrice dopo aver visto nel ’69, a quattordici anni, il film di François Truffaut La mia droga si chiama Julie» (Mario Serenellini). «Comincia a lavorare nel cinema francese nel 1970, quindicenne, studentessa liceale: due particine in due film, poi ecco due lavori per la televisione. Dopo viene scritturata per il teatro da Robert Hossein, che sta mettendo in scena La casa di Bernarda Alba di Lorca. Quindi, ancora teatro» (Lamberto Antonelli). «Grande talento naturale, senza aver seguìto corsi di recitazione regolari entra a diciassette anni alla Comédie-Française, interpretando, fra l’altro, la parte di Agnese in La scuola delle mogli di Molière. Sul grande schermo, […] Lo schiaffo (1974) di C. Pinoteau […] le apre le porte del cinema d’autore. […] La sua interpretazione migliore è […] merito di F. Truffaut, come protagonista di Adele H., una storia d’amore (1975), che costituisce il suo trampolino di lancio (e che le vale una candidatura all’Oscar)» (Gianni Canova). «Truffaut […] scopre la Adjani in tv (come succederà per la Ardant) – “la sola che mi abbia fatto piangere davanti al piccolo schermo” – nella registrazione di La scuola delle mogli, la rivede nel ’74 nel film La gifle di Claude Pinoteau e la induce a rompere il contratto con la Comédie-Française, rinviando le riprese purché sia lei la protagonista, anche se troppo giovane rispetto al personaggio della secondogenita di Victor Hugo. “Un incontro insperato, di cui non ho capito subito l’importanza: prematuro, purtroppo – è il suo rimpianto –. Ero troppo giovane, una debuttante. Lui nutriva il desiderio, come ha poi scritto stupendamente, di rubarmi, filmandomi, qualcosa di prezioso, ‘tutto quel che succede in un volto e in un corpo in piena trasformazione’. Mi è rimasta la frustrazione di non aver girato di nuovo con lui. Mi ha trasmesso allora il suo amore del cinema. M’ha insegnato quel che è importante e non importante in un film, e mi ha fatto capire che la tecnica non è il contrario della verità”» (Serenellini). «Il regista disse di non aver mai provato uno stordimento simile, che filmarla era stata una sofferenza, tanto il suo desiderio era intenso. All’epoca lei ha 19 anni, è la rivelazione del cinema francese. Truffaut, travolto dall’ammirazione, le manda libri, la bombarda di lettere ardenti. Isabelle è soggiogata dall’intelligenza di lui. Durante le riprese, hanno due camere contigue, la seduzione è incessante. Isabelle è fortemente turbata, ma rifiuta di cedere alle avance di lui, la cui reputazione le fa paura: tre anni prima aveva sedotto una delle protagoniste de Le due inglesi, per poi lasciarla a fine film. Oggi mi dice dolcemente: “L’ho amato a posteriori”. E le lettere che lui le aveva scritto, con lunghe dichiarazioni d’amore? “Mia madre le ha buttate tutte, per gelosia”» (Foenkinos). «Lavora poi per R. Polanski (L’inquilino del terzo piano, 1976), W. Herzog (Nosferatu, il principe della notte, 1979), e nel 1981 conquista la Palma d’oro come migliore attrice protagonista a Cannes per le sue prove in Possession di A. Zulawski e Quartet di J. Ivory» (Canova). «Isabelle conosce bene la tendenza dei registi a far soffrire le loro attrici “per ottenerne l’essenza dolorosa e più profonda”. Dopo le riprese stremanti di Possession con Andrzej Žulawski nel 1981, aveva annunciato di non voler più lavorare con quel genere di autori. Un paio d’anni più tardi, si ritrovò tuttavia sul set di Jean-Luc Godard per Prénom Carmen. Fatto rarissimo, lasciò il film dopo qualche giorno. Allora si disse che non sopportava il sadismo del regista. Lei mi rivela oggi un’altra verità: suo padre stava morendo e a Godard non sembrava importare. “Se fosse venuto con me in ospedale, sarei andata avanti: così non mi è stato possibile”, dice. Poi aggiunge, con umorismo: “In fondo, lasciando il film, sono stata più Godard di Godard”. […] A casa Adjani, una ragazza doveva conservare una certa dose di pudore e non doveva parlare di sé. “All’inizio piangevo spesso dopo le interviste”, mi dice. Sappiamo anche che ha detto di no ad alcuni ruoli a causa delle scene di nudo che avrebbero scioccato il padre. E che aveva rifiutato di recitare ne L’estate assassina, per poi far marcia indietro dopo aver scoperto che il ruolo sarebbe andato a Valérie Kaprisky: il produttore allora ne approfittò per pagarla molto meno del pattuito» (Foenkinos). «Io avevo rifiutato L’estate assassina per più di un anno, perché non potevo immaginare di recitare nuda finché mio padre era vivo. In realtà, non pensavo che il mio corpo fosse bello: mio padre […] non voleva specchi grandi in casa, quindi io non avevo mai visto il mio corpo a figura intera, pensavo di essere solo un tronco. Quando ho accettato, alla fine, mio padre era molto malato: sapevo che non avrebbe fatto in tempo a vedere quel film. Poi sul set il regista mi ha chiesto se volevo mettere una camicia, in una scena in cui scendevo le scale nuda, e ho detto no. Se lo avessi fatto, avrei tradito il personaggio ma anche me stessa, e mi sarei messa in pericolo. È paradossale, ma una volta che avevo accettato di recitare quella trasgressione dovevo farlo fino in fondo: se fossi scesa a compromessi avrei rotto l’equilibrio tra realtà e recitazione» (ad Angiola Codacci-Pisanelli). «Nel 1985 è la volta di Subway di Luc Besson, nei panni di una donna che insegue l’avventura e l’amore nei sotterranei della metropolitana» (Piero Di Domenico). Alla fine degli anni Ottanta, la Adjani fu oggetto di una «ignobile aggressione psicologica orchestrata dalla stampa scandalistica, che tra l’88 e l’89 riprese e ingigantì le voci che volevano l’attrice, allora trentaquattrenne, ammalata di Aids, e in fase terminale. “Era un pettegolezzo insensato, messo in giro, credo, a Marsiglia, negli ambienti del Fronte nazionale di Le Pen”, ha poi raccontato Isabelle. “Penso che abbia attecchito perché sono figlia d’un algerino e d’una tedesca, e nonostante ciò ho avuto successo. E certa gente, gente di estrema destra e razzista, questo proprio non me lo poteva perdonare”. Da Marsiglia la voce arrivò a Cannes, e da Cannes a Parigi. Attorno alla Adjani si fece il vuoto, nessuno voleva più lavorare nel film che stava interpretando, Camille Claudel. Alla fine, Isabelle Adjani decise di andare in tivù, a smentire personalmente la terribile diceria. Fu un episodio che commosse la Francia. I francesi sono capaci di grandi amori, quando si commuovono: e la Adjani, che era già una stella, ma poco amata – la accusavano di essere intellettualoide, nevrotica e spocchiosa –, diventò un’eroina nazionale» (Gabriele Ferraris). «Vivere, e recitare, è per la Adjani, con frase rubata a Camille Claudel, “far girare la statua”, cercare le ombre attorno alla propria immagine. Tornio eletto per farsi "scolpire" e riscoprire, in gara di martirio col suo personaggio, è […] la scultrice sorella del poeta Paul Claudel (da lui definita “un mistero in piena luce”), allieva e amante di Auguste Rodin, trascinata nella follia dall’eccesso di richieste vitali rimaste inappagate. […] Nella Claudel, al tempo delle riprese, la Adjani ha ritrovato coincidenze orgogliose anche di fronte alla fastidiosa persecuzione di media che la volevano sieropositiva, addirittura morta, costringendola a un’immediata smentita video. […] Acclamata e reietta, come Camille, finita in manicomio, anche perché spediva escrementi per posta: “Ma lo faceva con i potenti, come il ministro delle Belle arti. Ho seguito il suo esempio quando la mia banca, cui erano arrivate le voci che fossi colpita dall’Aids, mi ha sollecitata per un conto scoperto, come a dire: sbrighiamoci, prima che crepi… Con amici ho raccolto ai Jardins du Luxembourg merdine di cane, né troppo dure né troppo molli, e le ho messe nella busta con l’assegno”» (Serenellini). «Ai César citò un brano dei Versetti satanici di Salman Rushdie: “La volontà è di non essere d’accordo, di non sottomettersi…”. Un bel coraggio difendere pubblicamente un artista condannato da una fatwa. “Ero incosciente. Contava solo l’importanza di difendere la libertà d’espressione”» (Foenkinos). In seguito, «segnata da una vita privata tumultuosa e dalla sfortunata storia d’amore con l’attore Daniel Day-Lewis, […] la Adjani abbandona il cinema per qualche anno. Il suo ritorno sullo schermo avviene nel 1993 con Toxic Affair di Philomène Esposito, e l’anno successivo gira il kolossal La regina Margot di Patrice Chéreau. Nel 2000, poi, dopo 17 anni di assenza, diretta da Alfredo Arias, è tornata a recitare anche in teatro nei panni struggenti di Marguerite Gautier, la celeberrima Signora delle camelie» (Di Domenico). Negli anni successivi, però, l’attrice continuò periodicamente a eclissarsi dalle scene, per ragioni personali. «Si è molto parlato […] della sua voglia di fuggire dal mondo del cinema. Ma è perché ci sono stati momenti in cui la vita era più importante. È diventata prestissimo “genitore dei miei genitori”. E poi c’era suo fratello, rovinato dalla tossicodipendenza e morto nel 2010. Aveva la sensazione, dice, che se fosse stata presente non sarebbero morti. “Ho salvato diverse volte la vita ai miei genitori e a mio fratello, evitando i drammi, essendoci al momento giusto e prendendo le decisioni giuste. In qualche modo, mi sono resa ostaggio della loro sopravvivenza”. Non contava più niente in quel momento, come niente contava durante le sue storie d’amore. […] Si è molto parlato delle sue trasformazioni fisiche, del suo peso. Ma adesso “ho recuperato una volta per tutte la libertà di relazionarmi con il mio corpo”, dice. E poi usa l’avverbio “coraggiosamente”, per parlarmi di alcuni film che ha girato. Nella Journée de la Jupe del 2008 e in Carole Matthieu del 2016 si è mostrata in un corpo che non sopportava. L’ha vissuto come una penitenza: offrire lo spettacolo della sua stanchezza, l’espressione dell’abbandono di sé. Essendo così discreta, le domando perché parla apertamente del rapporto col suo corpo. “Ha a che fare con l’affare Weinstein”, risponde. Stavolta ha deciso di parlare. Quando il corpo è stato subìto, riprenderne possesso è una vittoria inestimabile» (Foenkinos). Da ultimo, nel 2018, la Adjani è stata acclamata al Festival di Cannes per la sua partecipazione a Le Monde est à toi di Romain Gavras, «in un ruolo brillante: la madre di un delinquente, ladra di prodotti di lusso nei grandi magazzini, grandiosa rompiballe. La interpreta con divertimento e talento, rubando la scena agli interpreti maschili, pure parecchio bravi, ovvero Karim Leklou e Vincent Cassel» (Paola Jacobbi). «In passato ha detto molti “no”, da Cyrano de Bergerac a Lezioni di piano o Attrazione fatale. Questa volta, spiega, rifiutare Le Monde est à toi “sarebbe stato come rinunciare a un’avventura, e credo di averlo fatto troppe volte”. […] Con Gavras l’intesa è stata totale. Hanno perfino stretto un patto: reciterà in tutti i suoi film, anche solo come comparsa. Di lui ha apprezzato innanzitutto la “cortesia”, perché, dice, è sfiancante vivere in un’epoca in cui “la gentilezza è associata alla stupidità”. […] In lei si percepisce anche la felicità di essere stata scelta da L’Oréal come testimonial mondiale del marchio. Da attrice ha ritrovato il piacere di recitare, di essere e di apparire. La vedremo nel prossimo film di Virginie Despentes, ispirato alla relazione tra i pittori Suzanne Valadon e Maurice Utrillo, madre e figlio» (Foenkinos). «Hanno fatto tanti grandi film in mia assenza. Non mi manca quello che non ho, però mi è tornata voglia di lavorare» • Qualche esperienza come cantante. «Nel 1983 lei ha fatto un disco di grande successo con Serge Gainsbourg. Come ricorda quell’esperienza? “Gainsbourg diceva che detestava le cantanti che avevano troppa voce, e che invece amava le attrici perché ne hanno solo un soffio… È stato davvero divertente, perché non dovevo dimostrare nulla, ma solo partecipare a un percorso musicale, in un campo per me del tutto nuovo. Un’esperienza eccitante, ma irripetibile”» (Codacci-Pisanelli) • È anche produttrice. «Ho cominciato con Camille Claudel, ma era troppo presto: negli Usa un’attrice che produceva il proprio film era già normale, in Francia invece è sembrato strano. Penso che sia un ottimo modo per avere ruoli interessanti anche quando non si è più giovani. Sento spesso attrici famose lamentarsi di non avere più proposte di ruoli interessanti, ma io sono convinta che i ruoli adatti alla nostra età dobbiamo costruirceli noi. Io ho deciso di non tener conto della mia età. Ho orrore che mi venga ricordata la mia età, ho orrore di ricordarmene io stessa, e non per civetteria ma perché la società lavora a ricordartelo in continuazione. E non lo fa mai per valorizzare la maturità della donna, ma sempre con disprezzo: non per niente è uno dei temi preferiti dei giornali scandalistici. È molto sessista e misogino, nel mondo del cinema: è un atteggiamento che bisogna capovolgere, ma sta a noi capovolgerlo» • Nubile, con numerose relazioni sentimentali all’attivo e due figli avuti da due uomini diversi: il primo, Barnabé (1979), dal regista Bruno Nuytten, conosciuto durante le riprese di Barocco (1976), di cui era direttore della fotografia; il secondo, Gabriel-Kane (1995), dall’attore Daniel Day-Lewis, che non appena la seppe incinta la lasciò, inviandole un messaggio via fax. «“Per stare vicino a Day-Lewis, avevo abbandonato la Francia, divenendo residente inglese. Il mio Paese è dove è la mia vita. Per tre anni la mia esistenza è stata più bella di qualsiasi film. Perché qualcosa cambi, bisogna a volte assumersi il rischio di perdere tutto. Vale per l’amore come per il resto”. Non ha sentito di dover riguadagnare il tempo perduto, quando ha ripreso a lavorare? “Non c’è stato tempo perduto, ma tempo donato. La vita vince sempre. È la vita che mi toglie al cinema, talora per periodi troppo lunghi, ma è sempre la vita che mi ci riporta”» (Serenellini). «Si è ritirato, lo invidio: dopo aver vinto tre Oscar, di cos’altro hai bisogno? Siamo rimasti in buoni rapporti. Eravamo felici insieme perché dimenticavamo di essere attori, cosa che sta facendo ora con la sua scelta. Quando ti dai completamente, questo lavoro è duro». Particolarmente nota anche la successiva relazione col musicista e compositore Jean-Michel Jarre, di cui al momento della separazione l’attrice denunciò pubblicamente l’infedeltà, ammantando di finalità sociali tale scelta: «Ho voluto, partendo da me, mettere in guardia dalle coercizioni emozionali, cercando anche di far cambiare la legge francese, che non riconosce nella sfera privata la crudeltà mentale o la persecuzione morale». «Non ho tanto tempo davanti per consacrarmi a ipotesi d’amore, ma posso incontrare la persona giusta che bussa alla mia porta. Non vuol dire che ho bisogno di un uomo: cerco gentilezza e complicità» • «Da anni lei vive in Svizzera per difendersi da paparazzi e fan. Com’è il suo rapporto con la fama? “È pesante, perché devi fare i conti con una proiezione di te sulla quale non hai nessun controllo, un fantasma che accende attese alle quali non puoi mai corrispondere. Ma per fortuna sono un’attrice e non una rockstar: i cantanti fanatizzano le folle, la musica è un vettore di isteria molto più potente dei film. Oggi, poi, con i social, è tutto ancora più difficile: quando ho iniziato io, il tempo dei media era più accettabile. Oggi fare carriera non significa cercare la propria voce di attore, in base alle proprie qualità, ma iniziare un business, scegliere strategie di comunicazione per la propria immagine. Io mi sono tirata fuori da questo: è stata una mia scelta, ma penso che in questi tempi dominati dai social network sarò sempre più emarginata. Ma davvero non potrei fare come questi giovani attori che di sé danno tutto, che stanno sempre tra selfie e tweet, creando una dipendenza che colpisce sia chi divora sia chi si fa divorare, come un fuoco che si consuma in continuazione e continuamente rinasce”» (Codacci-Pisanelli) • «Impegnata politicamente, soprattutto sui diritti degli immigrati, da tempi non sospetti, anche a causa delle sue origini algerine» (Jacobbi). «Non sono una maratoneta dell’impegno. Ma, se ho la possibilità di intervenire in un modo che mi sembra efficace, lo faccio. Sono un’artista, non un’intellettuale: quindi deve essere una causa che sento profondamente: deve colpire le mie emozioni, non essere solo una decisione razionale. […] Non voglio mettere piede, non voglio mettere neanche un alluce nel campo della politica, ma mi interessa il campo dei cittadini. Mi piace mescolare la mia voce alle loro: e, se la mia voce ha più eco di tante altre sui mezzi d’informazione, non è per una mia scelta. L’impegno diretto, però, lo lascio ad altri, come la mia amica Yamina Benguigui, anche lei nata in Francia da padre algerino, regista di documentari importantissimi prima di diventare ministro per la Francofonia [nei governi Ayrault I e II (2012-2014) – ndr]». «Una volta nella giostra dello spettacolo, diventiamo protagonisti dei media: non possiamo permetterci d’essere artisti e basta, dobbiamo fare sentire la nostra voce, essere presenti, intervenire. Sia nella sfera pubblica che privata, non bisogna mai avere paura, o vergogna, di rompere il cerchio che si chiude su aggressore e vittima. Occorre solo coraggio. Io ce l’ho» • «Mitici […] i suoi ritardi: una volta fu “enguelée” (rimproverata) aspramente da un altro divo, Mastroianni, a una cena privata dall’amico Jacques Grange (arredatore personale della diva), che aveva desiderio di sedersi a tavola al più presto e fu costretto ad aspettarla» (Rita Cirio) • «Ha lo sguardo fermo e solitario di un gatto. Un po’ sfinge, un po’ luna. Immutabile» (Serenellini). «Da vicino, Isabelle Adjani è bianca come una maschera del teatro No giapponese. Bianca e indifesa, sensibile, riservata. […] “È difficile sottrarsi alla pressione dello sguardo degli altri. Ma è la bellezza a determinare la libertà per affermarsi in quanto femmina. Ti fa sentire più forte, ti fa rispettare”» (Cappelli) • «Esemplare protetto nella sparuta riserva transalpina di star – accanto a Fanny Ardant, Catherine Deneuve, Isabelle Huppert, Juliette Binoche –, è l’unica a avere fatto del grande schermo il suo altare del sacrificio: bella tra le spire d’una bestia infernale (Possession di Andrzej Zulawski), stuzzicante Justine in morbosi meandri domestici (Quartet di James Ivory), pedina di labirinti grotteschi (L’inquilino del terzo piano di Roman Polanski) o romanticamente carbonari (Subway di Luc Besson), stremata dal destino in Barocco e Le sorelle Brontë di André Téchiné. […] Una lunga collezione di disinganni, macerazioni, autoflagellazioni. E di premi d’interpretazione» (Serenellini). «“Tutti i personaggi che ho interpretato con più piacere sono donne che hanno avuto destini complessi, dolorosi. Sono anche i miei personaggi preferiti in letteratura”. Quali, per esempio? “Mi piace moltissimo come Jane Austen parla delle donne. E Racine: tutto quello che so sull’amore, sulla sofferenza d’amore, l’ho letto nelle sue pagine. E l’ho ritrovato poi nelle pagine di Françoise Sagan, una grande scrittrice che non è ancora valutata come merita. Certo personaggi come questi si trovano più in film d’epoca che d’attualità. E così nascono tanti miei personaggi in film in costume, Camille Claudel, un’artista che vive tra mille sofferenze, o la regina Margot, alla quale viene impedito di vivere la sua vita, di scegliere l’amore, di fermare una guerra di religione. Ho sempre scelto i miei ruoli così: qualcosa mi parla in un personaggio femminile e io, come donna, rispondo”» (Codacci-Pisanelli) • «C’è un filo rosso tra i film della sua carriera? “Il legame tra i miei film che preferisco è forse il rapporto padre-figlia… Che sia presente o scomparso, la figura del padre è sempre importante. Mi sono resa conto di aver sempre cercato mio padre nel mio lavoro, anche quando era ancora vivo. Nella maggior parte dei film che ho fatto, io ho parlato a mio padre. Come tutti i padri algerini, non era uno che esprimeva facilmente i suoi sentimenti. Aveva un grande pudore, il senso del segreto. Quando dici a un padre così che vuoi diventare attrice, gli dai un colpo. Fare l’attrice significa mostrare tutto, raccontare tutto. Mi ci è voluto moltissimo tempo prima di riuscire a lavorare senza aver l’impressione di tradire la legge di mio padre. E, in effetti, attraverso i ruoli che ho interpretato ho cercato di spiegargli il perché della mia scelta, che prevedeva l’esposizione se non l’esibizione di sé, e quindi poteva sembrare un tradimento di tutto quello che lui mi aveva inculcato. E ancora oggi, anche se può non sembrare difficile, le assicuro che non è facile. Malgrado tutto quello che ho fatto per emanciparmi da questo diktat paterno, credo che sia un peso che mi accompagnerà fino alla fine della mia vita. […] Ancora oggi per me fare questo mestiere è un po’ trasgredire il suo divieto. […] Mia madre […] è stata molto meno importante di mio padre nella mia vita: quello che volevo, quello che ho sempre voluto, è stato rendere felice mio padre, e riuscire a far sì che lui mi capisse”. […] Lei ha avuto molta fortuna nella sua carriera. Ma crede al destino, alla "baraka" araba? “Sono cresciuta con un padre superstizioso, quindi non posso certo rinnegare completamente la fortuna. E, sì, mi sento fortunata. Le prove nella vita non mi sono state risparmiate, decisamente no: però ogni volta mi è stato concesso anche l’aiuto necessario ad affrontarle. E ogni giorno dico grazie – anche se non so a chi”» (Codacci-Pisanelli).