ItaliaOggi, 26 giugno 2019
D’Annunzio merita un monumento
Quella statua non va messa. Tutta l’intellighenzia si è opposta, ha raccolto 1.700 firme: «No al monumento di D’Annunzio a Trieste». Un’idea «sbagliata» del sindaco Roberto Dipiazza: metterla nella centralissima piazza della Borsa. Non è d’accordo con i contestatori Claudio Magris: «È stato ed è, come sa anche chi lo detesta sul piano pubblico e civile, un grande poeta». Me l’insegnava il mio professore di liceo: «Carducci, Pascoli, D’Annunzio, l’elenco andrebbe capovolto, il primo è d’Annunzio». Forse di poesie ne ha scritte troppe, anche per motivi di soldi, ma la sua produzione più autentica, tutta anteriore ai suoi impegni politici, lo pone come uno dei più grandi poeti europei di fine secolo.Ma il monumento triestino ha un’altra motivazione. Siamo nel 2019, a cento anni dall’impresa di Fiume. Un evento che va al di là delle cause politiche che l’hanno suscitato e che oggi è stato capito come una anticipazione di quella rivoluzione culturale che l’Italia avrà mezzo secolo più tardi: una trasformazione radicale e totale della morale sociale del popolo italiano. Proprio giovedì e venerdì Trieste lo ricorderà con un convegno di storici.
Sappiamo tutto dell’impresa fiumana grazie a due libri esemplari di Renzo De Felice: La carta del Carnaro, 1973, e D’Annunzio politico, 1978. Con 2600 soldati Gabriele occupò Fiume il 12 settembre e ne proclamò l’annessione al Regno d’Italia. Nacque così la «Reggenza del Carnaro», che durò 16 mesi sino al «Natale di sangue» del ’20, quando Giolitti la fece sgomberare. La «carta» (8 settembre 1920) era una sorta di costituzione del Nuovo Stato. Certamente innovativa e rivoluzionaria: una sintesi di democrazia e stato forte, una convergenza di capitalismo e lavoro per mezzo delle corporazioni, una proprietà privata e sociale giustificata solo dal lavoro che produce, una garanzia dei princìpi, libertà, indipendenza, giustizia e dignità morale, nessuna distinzione di razza, religione, classe o lingua (le scuole di Fiume insegnavano italiano, tedesco, croato e ungherese).
Ancora più importante della reggenza fu il clima di vitalismo festaiolo e di permissivismo esasperato che si impose in quei mesi e che attirava a Fiume ribelli e anarchici, spiriti liberi e trasgressivi, scalmanati e stravaganti. Che amavano l’arte dadà e quella futurista.
Se ripercorriamo quei costumi non v’è dubbio che il movimento di contestazione degli anni Sessantotto del Novecento ha ripreso non pochi topoi di Fiume. Come pure ai nostri giorni la politica-spettacolare e il linguaggio trasgressivo, che verranno ereditati dal fascismo, hanno un nonno in D’Annunzio, che fu il primo letterato a capo di un governo, vate e insieme comandante.
Lo storico del fascismo George Mosse ha sottolineato che fu proprio Gabriele a usare per primo la tecnica di plasmare e suggestionare le masse creando un legame mistico con la folla (Il poeta e l’esercizio del potere politico, 1980).
Fiume fu il primo territorio dell’Italia che ebbe il divorzio (ne approfittarono Guglielmo Marconi e Vilfredo Pareto). La droga, che D’Annunzio chiamava «polvere folle», circolava liberamente.
Per non dire della omosessualità e dell’amore di gruppo, considerati forme diverse di soddisfazione sessuale. Il nudismo era lecito e anche apprezzato. Anche l’abbigliamento era contestativo: capelli lunghi o teste rasate, abiti fantastici ed estrosi. Era la «fantasia al potere».
Non poche donne, soprattutto aristocratiche o dell’alta borghesia, andavano a Fiume in cerca di emancipazione. Spesso vestivano da soldato. Come la contessa Casagrande, giovane e bionda, elegantissima quando fu fermata dalle truppe italiane: sull’abito aveva ricamato in oro il pugnale e l’alloro degli arditi, con la scritta «O Fiume o morte».
I mesi di Fiume furono quelli della «vita come festa», del ribellismo e della trasgressione, chiara anticipazione degli imperativi della contestazione del Sessanta: «l’immaginazione al potere», «c’è una sola realtà, quella dei vostri desideri», «proibito proibire», «apriamo le porte dei manicomi, delle prigioni e delle scuole». Anche lo slogan: «mettete dei fiori nei vostri cannoni» fu inventato da Gabriele, che si autodefiniva, ben prima di Lidia Ravera e Marco Lombardo Radice, «porco con le ali». Vi si viveva in un perpetuo succedersi di balli e canti, gioco e teatro. I fiumani furono i primi «indiani metropolitani» della nostra Italia. Molte delle su «stranezze» sono per noi oggi abitudine e norme giuridiche.
Guardiamoci in giro in qualunque città. I nomi delle strade e i monumenti premiano le cose buone fatte da un personaggio, anche se sappiamo che è sempre mescolato con il meno bene. Come accade in ogni uomo. E come è accaduto anche in D’Annunzio. Quante cose ci irritano, ci infastidiscono, ci sconvolgono. Ma quante altre ci esaltano, ci estasiano, ci sublimano. Grande poeta e grande uomo d’azione, un monumento lo merita proprio.