Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  giugno 26 Mercoledì calendario

Lo ’ndraghetista di Piacenza

BOLOGNA – «Io a Salvatore gli parlo chiaro, gli dico: “Salvatò, non dobbiamo affogare ‘sta azienda, dobbiamo cercare di pigliare la mimma (la mammella, ndr ) e succhiare no?». Ha l’occhio lungo, Giuseppe Caruso, quando dice di voler parlare a Salvatore Grande Aracri, boss emergente dei clan calabresi in Emilia. Occhio lungo e mentalità da ’ndranghetista di ultima generazione. “Pino”, come lo chiamano a Piacenza, tutto sembrava tranne che il mafioso di rango che affiora dall’indagine della Dda di Bologna. Origini cosentine, 59 anni, una lunga carriera politica e, secondo la pm Beatrice Ronchi, anche affiliato dei clan calabresi. Due passioni: lo scranno e la mafia. Arrestato assieme al fratello Albino dalla polizia per un’indagine contro boss e tirapiedi dei Grande Aracri (16 arresti e 76 indagati), da due anni era il presidente del Consiglio comunale di Piacenza. Politico più noto per la sua costanza che per il suo eloquio. A Piacenza era stato consigliere d’opposizione dal 2002 al 2012 per An prima e per il Pdl poi. Fino alle scorse elezioni, con il centrodestra vincente e lui eletto con 155 voti in Fratelli d’Italia (ieri è stato sospeso). Presenzialista (non mancava mai a un banchetto). Dipendente dell’Ufficio delle Dogane aveva una sorta di vita parallela, in cui aveva riversato tutti i rapporti costruiti in tanti anni di attività pubblica. Il Caruso meno pubblico era un Caruso che parlava come i mafiosi, si muoveva come i mafiosi e aveva interessi mafiosi «Comandiamo noi. Punto! – aveva detto a un summit – Quindi se sapete chiedere vi sarà dato... Se non sapete chiedere ve ne tornate a casa». Era legato a doppio filo con Salvatore Grande Aracri, figlio di Francesco e nipote del più noto boss Nicolino, seppellito all’ergastolo e al 41 bis da alcuni anni. Savatore, dopo gli arresti e le condanne di “Aemilia”, era predestinato a prendere le redini degli affari di famiglia. E a Caruso quegli affari piacevano. Estorsioni, usura, conti correnti, intestazioni fittizie e riunioni di mafia, cui partecipava anche a nome di Grande Aracri. L’esponente di FdI, per i magistrati della Dda, non era un politico al servizio della mafia, come in tante occasioni è già capitato di scoprire. Il presidente del Consiglio comunale era, caso praticamente unico al Nord, un affiliato della ’ndrangheta che si era candidato e fatto eleggere, anche se dall’indagine non pare che il suo ruolo istituzionale sia coinvolto nell’attività criminale. Chi lo conosce dice che di recente amava le macchine grosse e le belle donne. Secondo gli inquirenti era accorto. Lo si capisce dalle intercettazioni in cui racconta di aver detto a Grande Aracri: «Io dal di fuori se ti posso dare una mano te la do (...). Perché ho mille amicizie, da tutte le parti... Bancari, oleifici, industriali, tutto quello che vuoi... Io posso bussare (...) ma se tu mi immischi, mi hai bruciato... è finita». Un uomo cerniera, che amava dire: «Tutto ha un prezzo, tutto si può comprare».