il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2019
La graticola di Guareschi
Giovannino Guareschi viene da un tempo in cui il sopraluogo funziona magnificamente con una “elle” sola. A un certo punto però, l’epoca sua – presa da un asinino urto conformista – ne mette due di “elle” e dice una cosa tipo “Giovanni ventitreesimo”. Lui, invece, il Santo Padre regnante lo chiama per com’è giusto appellarlo: Giovanni vigesimoterzo e Guareschi che nel 1963 scrive per Il Borghese – il settimanale fondato da Leo Longanesi e poi diretto da Mario Tedeschi e Gianna Preda – è lo “squilibrato squilibratore” che non può accampare i titoli di credito di un PPP, il Pier Paolo Pasolini che invece è vanto dello spirito del tempo. Guareschi è ancora quello che a guerra finita, quando torna da un campo di concentramento tedesco domanda in giro – “Il mondo, dove va?” – a sinistra, gli rispondono tutti e lui, allora, bofonchia: “Allora io vado a destra”.
Pane di casa qual è, scrittore, disegnatore e giornalista Guareschi torna in libreria con L’Italia sulla graticola, scritti e disegni per il Borghese (1963-1964), un volume Rizzoli a cura dei figli Alberto e Carlotta, con prefazione di Alessandro Gnocchi che, al lettore di oggi, offre l’esatta caratura del padre di Don Camillo. L’isolamento impostogli dai silenzi, dalle reticenze e dalla censura “che la politica, naturalmente democratica e antifascista, gli costruì attorno nell’ultimo decennio della sua vita con la complicità dell’apparato culturale di riferimento”. Isolato, Guareschi, sebbene spopoli nelle librerie, sia tradotto nelle principali lingue – “eccettuata quella italiana”, così dice – e abiti l’immaginario e il sentimento di milioni di lettori al mondo, forte di un vocabolario di sole cento parole.
Il Santo Padre a suo tempo regnante – Giovanni XXIII – gli chiede di redigere il Catechismo ma lui appunto, umile, dice no: “Non ne sono degno”.
Ed ecco, dunque, in queste pagine, il Guareschi che si ritrova a vivere un tempo in cui il miracolo economico italiano è custodito “nel suo elegante astuccio di pelle pregiata”.
Un miracolo, anzi – il boom – tutto da ammirare. È in una vignetta del Borghese in cui il 1964 e il 1965 si danno il cambio nel calendario. E l’astuccio è il coccodrillo del centrosinistra che se la inghiotte tutta quell’Italia del suo credo – il Re, Cristo e la Patria – a vantaggio del pastrocchio cristian-marxista, o cattocomunismo che dir si voglia, di “donne di malaffare, invertiti e altre porcherie del genere”.
Un esperimento tutto italiano, questo del centrosinistra, per mettersi al passo col progresso, con un protagonista nella scena politica – Amintore Fanfani – che Guareschi descrive come l’accoltellatore di Cristo, il vessillifero di quell’apertura a sinistra con cui si guadagna comunque un primato: “Mai nessun uomo politico fu tanto detestato quanto Amintore Fanfani”. E Guareschi ne fa strame, oltre che nella sua prosa, nelle vignette in cui è sempre sottolineata la bassa statura. Ai lettori che gli contestano i giudizi politici corroborati da valutazioni di natura fisica – “che accadrebbe di Leopardi e di tante altre personalità fisicamente non perfette” – Guareschi taglia corto e risponde così: “Se Leopardi si presentasse tre o quattro volte per settimane alla Tv per spiegarci di votare per il centrosinistra, noi lo tratteremmo esattamente come trattiamo Fanfani”.
Non è mancanza di stile la sua, è mancanza di ipocrisia.
Gino Paoli – celebre “per gli occhiali neri da menagramo” – contesta i giornalisti che sulla clamorosa vicenda del proiettile parlano di tentativo di suicidio, assicura essersi trattato solo di una disgrazia, e Guareschi gli dice: “…visto che è guarito ed è tornato alla sua normale attività, siamo d’accordo con lui; una vera disgrazia”.
Di Alberto Sordi, la maschera d’Italia per eccellenza, Guareschi ha un’urticante e definitiva idea: “È la diffamazione vivente dell’italiano in guerra e in pace”.
Scrivere per Il Borghese, il combattivo settimanale della destra – perfetto per lui che è “di destra nel modo più deciso e inequivocabile” –, è un impegno vivace e senza possibilità di equivoci.
Dall’aprile 1948 all’aprile 1963, quando ci saranno nuove elezioni, agli occhi di Guareschi il “pericolo rosso” è ancora più forte: il primate di Ungheria, il cardinale Mindszenty – “luce di Cristo che brilla nel buio” – è isolato nel suo martirio quando la sua stessa Chiesa, seguendo il concilio Vaticano II, si accorda “col nemico”.
La Dc è un’ossessione per Guareschi che pure – da formidabile propagandista qual è – porta alla vittoria nel 1948. Suo, infatti, è lo slogan “Nel segreto dell’urna Dio ti vede, Stalin no”.
Ma è l’Italia che gli diventa definitivamente provvisoria.
“Giù il cappello!” reclama una malinconica vignetta.
Ci sono dei ceffi in marcia, onusti di medaglie, che richiamano l’attenzione di tutti: “Giù il cappello, è quello che ha ammazzato Giovanni Gentile”.
Senza possibilità di equivoci, nell’unico impegno di sopraluogo: la graticola