il Fatto Quotidiano, 25 giugno 2019
Biografia di Lotito
Da una ventina d’anni gira lungo le insonni carreggiate della cronaca con tre macchine blindate, quattro telefoni e (forse) una pistola. Ogni tanto gli odiati «sepolcri imbiancati della putritudine» lo infilano nel tunnel dei processi, ma ne esce indenne con luminose batterie di avvocati e disincanto: «’Sto mondo va cambiato. Mi mettono in mezzo, ma solo perché il mio nome rende tutto più croccante». Il suo nome è Claudio Lotito, detto Lotutto, presidentissimo della Lazio e di tante altre cose, amico di tutti e di nessuno. «Io sono io», dice. Anzi: «Sono un avulso». Ed è vero anche al colpo d’occhio, sembrando un Charlie Brown diventato grande, il carattere a metà tra un Ciarrapico e i Cesaroni, ma «sempre con il vangelo e il rosario in tasca», a dispetto dell’indole fumantina che non porge mai l’altra guancia.
Ma in quanto alla politica e ai politicanti Lotito non è avulso affatto. Ha ammirato Andreotti. È passato a Gianfranco Fini. Ha ignorato Renzi: «Non so se c’è dell’altro oltre l’apparenza». È approdato a Berlusconi – «sono amico di Silvio, di Paolo e pure di Galliani» – che all’ultimo giro lo ha candidato senatore, per il momento primo dei non eletti, ma con in ballo il riconteggio di queste ore: “Spes ultima dea”.
Viene dal nulla di Ciampino e dalle imprese di pulizia, moltiplicate dagli appalti pubblici. Ha fatto i soldi in fretta. Quanti non lo sa nessuno, li fa vedere raramente e per questo lo chiamano Lotirchio. Si è preso la Lazio, dopo il crac di Sergio Cragnotti, forse la Federcalcio, dopo Calciopoli, «quando mi sono messo Tavecchio sulle spalle», senza mai smettere di pontificare un po’ in italiano, un po’ in latino, come il Papa. Il Papa del calcio, naturalmente. E sempre arabescando una sua personale filosofia che suona come un gioco di parole: «Nel calcio mi ispiro al Manzoni: l’utile per scopo, il vero per soggetto, l’interessante come mezzo». Non vuol dir nulla, ma qualcosa sembra. E sembrare è il suo segreto. Uno dei tanti che maneggia, facendosi trovare dove non ti aspetti. Per esempio, a notte fonda, all’Hotel Champagne con Luca Palamara e una pattuglia di magistrati, giocando al risiko delle procure. Cui prodest? O sulla rotta declinante di Alitalia per candidarsi al salvataggio di tutta la baracca volante. Con quali soldi? Pizzicato dal trojan dalla Guardia di Finanza, ha detto di non sapere nulla di quella cena a mezzanotte con i giudici per dessert: «Leggo che siamo amici, ma mica è vero. Io sono un personaggio pubblico, un’autorità, conosco un sacco di gente». Risposta che non spiega, salvo che “autorità” è la parola chiave della frase. In quanto all’Alitalia siamo al remake. Disse nel 2014: «Se mi danno Alitalia, la rimetto a posto in cinque anni». All’epoca non ha gli ha creduto nessuno. Ora che servirebbero 200 milioni per entrare almeno alla fase di rullaggio, il nessuno è diventato Gigi D Maio, auguri.
Lotito nasce nell’anno 1957, dove oggi decollano i low cost e atterra la polvere. Padre carabiniere, madre insegnante, radici rustiche a San Lorenzo di Amatrice. Volenteroso a scuola, come l’Alfieri che spesso cita: «Volli, sempre volli, fortissimamente volli». Laurea in Pedagogia col massimo dei voti. La sua specialità non sono i pupi, ma i conti, il latinorum e la pulizia.
Comincia con la prima impresa nel 1987. Ne fonda tre: Linda, Aurora e Bonadea. Poi entra nel catering e nella vigilanza. Incassa appalti pubblici milionari in Regione, Comune e Provincia. Ospedali, Enti, Asl. Qualcuno storce il naso. Qualche magistrato indaga. Finisce in manette nel 1992 per turbativa d’asta, sospettato di sapere in anticipo i massimi ribassi delle gare. Incassa una condanna in primo grado per Calciopoli. Un’altra per ostacolo agli organi di vigilanza. Poi tutto passa in cavalleria tra archiviazioni, prescrizioni, assoluzioni, ricorsi. Compresa l’accusa di non avere pagato multe per 26 mila euro al Comune, colpevole di scorrazzare lungo le preferenziali con la scorta. «Ma vi pare che uno come me si fa cancellare le multe?». E poi: «Pago 6 milioni l’anno di tasse e corro dietro a due multe?».
A 35 anni il cuore gli fa un regalo: sposa Cristina Mezzaroma, pupilla della dinastia di palazzinari ad alto reddito. Non lo conosce ancora nessuno. Per non sfigurare coi cognati, al matrimonio compra rose bianche e una Lamborghini. Va a vivere sull’Appia Antica con 3 ettari di parco, statue romane, piscina. E se non bastasse, acquista 1600 metri quadrati di villa a Cortina, più grande e più in alto di quella dei Benetton: «Così je tiro le palle di neve in giardino». Il complesso del parvenu lo mette in moto ogni mattina all’alba: «Lavoro più di tutti e dormo tre ore per notte». Quello che ha se lo merita e lo dice: «Sono volitivo e combattivo. Applico Dante: fatti non foste a viver come bruti». E in affari «il do ut des». Il colpo grosso lo fa nel 2004, quando compra la Lazio e finalmente entra nel giro dei pallonari nazionali con gloria e guai. La gloria di cinque coppe vinte in 15 anni. I guai delle tifoserie ultras a cui ha tolto il potere di ricatto, il traffico di magliette e i biglietti. Affronto che ricambiano imbrattandogli il viale di casa. E qualche volta avvelenando l’onore della squadra con gli adesivi di Anna Frank, spacciati, per colmo di idiozia, come un insulto ai romanisti. Quella volta è corso in sinagoga a scusarsi, peccato per quella frase detta (e poi negata) un po’prima al telefono: «Famo ’sta sceneggiata. Ma te rendi conto?».
Quando entra in partita, la società è in fondo al pozzo della Cirio con numeri da manicomio: fattura 84 milioni, ne spende 86 e ha 550 milioni di debiti. L’allenatore guadagna 3,5 milioni di euro l’anno e l’amministratore uno. «Aho! Sono stato come Gesù che caccia i mercanti dal tempio».
Con il decreto salva-calcio ha dilazionato i debiti con il Fisco in 23 anni di comode rate. E con la penna rossa ha cancellato le spese. Ha litigato a morte con i procuratori «che so’ negrieri assatanati di soldi!», dimezzato gli ingaggi ai calciatori, «ragazzini viziati» e le fanterie tecniche dei perdigiorno. Per 15 anni, uscendo da Formello, ha spento la luce nelle stanze. Dice che all’inizio in Federcalcio nessuno lo ascoltava, «ora stanno zitti perché sono diventato autorevole». Per questo parla sempre in prima persona singolare e al maiuscolo: «Mi credevano una meteora, invece sono sempre qua». Un condottiero dal cervello fine: «Io pe capi’ dieci anni ce metto un minuto». Vive tante vite tra telefonini trillanti e appuntamenti sempre improvvisi. Parla coi ministri. Litiga in tv coi giornalisti: «Sei anarfabbeta!». Sbriga cause nei tribunali e affari nei consigli di amministrazione: «Ho messo d’accordo Sky e Mediaset e portato i diritti tv a 1,2 miliardi». Prova a raddoppiare il miracolo della Lazio ora che si è comprato un pezzo di Salernitana. E vuole coltivare i giocatori «come si fa coi semi». Non smette mai di celebrarsi: «Il pallone è per tutti, il calcio per pochi». E di raccontarsi come un buon padre di famiglia: «In tanti nell’ambiente pensano al binomio fica & soldi, io no. Io sono monogamo convinto».
Quando lavora troppo, parla troppo, corre troppo, si addormenta all’improvviso. E russa. Sull’impero dei suoi 6 mila dipendenti, ogni domenica vola alta l’aquila del suo ego dentro a un cielo dipinto di bianco e di azzurro, che non sono solo i colori della squadra, «ma anche quelli della Madonna». Lo dice con la modestia dei devoti. Lo dice sognando un giorno di indossare le ali della santità. Quelle di Alitalia sono solo un depistaggio per chi ci crede. Un conquibus avulso che fa curriculum.
Pino Corrias