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 2019  giugno 25 Martedì calendario

Intervista a Mario Moretti Polegato, il signor Geox


Il signor Geox, all’anagrafe Mario Moretti Polegato, era destinato al mondo del vino. Nato e cresciuto nelle terre del Prosecco, in un’azienda vitivinicola di terza generazione, studia enologia ed entra in azienda. Una passeggiata nel deserto del Nevada imprime una svolta alla sua vita. È lì che prende corpo un’intuizione, poi progetto e ora azienda. È la Geox, 30 mila dipendenti, di cui 1.700 in Italia, mille negozi in 115 Paesi. Mario Moretti Polegato ha un patrimonio di 1,6 miliardi di dollari: così Forbes che lo ha incluso nella lista dei 35 miliardari d’Italia.
La sua doveva essere una vita di bollicine, ed è spumeggiante ma non per via del Prosecco
«Mia mamma raccontava che appena nato, papà mise una goccia di Prosecco sulle mia labbra dicendo: tu sarai il nostro futuro enologo».
E di fatto fino ai 30 anni si muoveva tra cantine e vigna. Poi cosa accadde?
«Ero a Rino per promuovere i nostri vini. Finita la fiera, decisi di fare una camminata in un deserto del Nevada.
Cammina cammina, ed ecco lidea di un nuovo tipo di scarpa.
«Prima dell’idea, un’esigenza. Faceva un caldo tremendo, bollore ai piedi. Così estrassi il coltellino svizzero dalla tasca e feci un buco nelle due suole. Rientrato in Italia, non gettai le scarpe perché qualcosa si stava muovendo nella testa. Riflettevo sulla tecnologia che avrebbe potuto risolvere il problema della traspirazione dei piedi».
E spuntarono varie ipotesi...
«Mille idee, altrettanti interrogativi, ma alla base una certezza: avevo scoperto che in America c’erano materiali speciali per astronauti, erano membrane traspiranti. Così mi concentrai su questi materiali. Tornai negli Usa per studiarli e apprendere nuove tecniche».
Fino alla soluzione finale delle suole per scarpe traspiranti e impermeabili.
«A quel punto pensavo di avere in mano la grande scoperta, non certo del secolo, ma tale risolvere un problema. Iniziai ad andare di azienda in azienda per promuovere il mio brevetto. Niente da fare. Nessuno era disposto a scommettere su questa idea».
Erano aziende italiane?
«Italiane, americane, tedesche. Bussavo a tante porte, però la risposta era la stessa: no, non interessa».
Ma lei perseverò.
«Col senno di poi, penso a quanto sono stato fortunato a ritrovarmi quelle porte chiuse in faccia. Se qualcuno avesse scommesso sul brevetto ora non sarei qui».
Così nasceva Geox dove «geo» sta per terra. E la «x»?
«La x rimanda alla tecnologia, allo spirito innovativo della nostra azienda che ha già messo in campo 38 brevetti. Un termine azzeccato se consideriamo che è pronunciabile in tutte le lingue. Non immaginavo certo che saremmo diventati un brand globale. Ma dal momento che è accaduto, il nome aiuta».
In quanti eravate all’inizio?
«Ero riuscito a convincere cinque ragazzi del paese ai quali subito diedi responsabilità così da renderli il più partecipi possibile. Da cinque passammo a cinquanta ed ora siamo in trentamila».
Tutto prodotto a Montebelluna?
«Anche in altri Paesi dell’Europa, prevalentemente nel Far East».
A proposito di nomi. Perché a un certo punto ha voluto aggiungere al cognome originario, Polegato, anche quello della mamma, Moretti?
«Mio padre è mancato in un incidente stradale. Mi trovai a digiuno di lavoro. Ero disorientato. Mamma è stata determinante, mi è stata accanto in ogni momento. Era una persona molto saggia, con la quale mi sono consultato per ogni decisione importante. Ha sempre dato consigli preziosi».
Intende consigli in ambito professionale?
«Anche nella sfera privata. È stata il mio braccio destro. Ha vissuto con noi».
Figura tra gli uomini più ricchi d’Italia. Quali capricci ama assecondare?
«Un filosofo dice che il denaro è importante per farsi ascoltare. Sottoscrivo la massima. Per il resto, il denaro in sé non mi dice nulla».
Per farsi ascoltare e accedere ai network che contano.
«Il Forum di Davos per esempio. Lì entrano in campo le eccellenze».
Altro esempio?
«Per l’Expo di Milano, io e altri imprenditori fummo invitati alla Casa Bianca dal segretario di Stato John Kerry. Prima di venire all’Expo volevano discutere un poco con noi, conoscere queste eccellenze italiane. Kerry conosceva il marchio perché le figlie di Obama indossavano le nostre scarpe, l’avevo già incontrato a Davos e fu proprio dopo quell’incontro che arrivò l’invito alla Casa Bianca».
Chi erano gli altri italiani oltre a lei?
«Eravamo una decina in tutto. Ricordo con particolare piacere Diana Bracco».
Lombardia, Emilia Romagna e Veneto (Lev) sono la macro-regione che riesce a tener testa all’Europa smarcandosi dal resto del Paese. E Treviso brilla in tutto questo. Come si spiega il miracolo?
«Potremmo far meglio però. S’è calcolato che anni fa, c’era un’impresa ogni quindici abitanti, e addirittura a Vicenza una ogni tre abitanti. Ad avviare tutto furono la Benetton e Marzotto, realtà che avevano creato un sub-artigianato. Attorno ai grandi marchi erano nate tante piccole imprese, però è mancato il salto finale, la spinta che le portasse a trasformarsi in grandi imprese».
Problema che sta segnando anche molte griffe della moda italiana.
«Per tutti la difficoltà sta in quest’ultimo passaggio. Oggi viviamo una fase di globalizzazione. Non si può tornare indietro, e per vivere la globalizzazione senza uscirne sconfitti bisogna poter compere con i grandi gruppi cinesi, indiani, americani».
Quindi cosa racconta quando va nelle università? Cosa dice ai ragazzi del Mit di Boston, della Columbia University, di Ca’ Foscari o del Politecnico?
«Anzitutto sono lezioni che tengo in modo molto spontaneo. Lo scopo è trasferire entusiasmo ai giovani. Entusiasmo e fiducia nel loro intelletto e nelle loro capacità. In questo senso torna utile citare la mia presenza nella classifica Forbes, perché troppo spesso si pensa che l’inventore sia lo sfigato che fa grandi scoperte ma viene apprezzato solo dopo la morte».
E sul fronte della proprietà intellettuale? Spesso la invitano per parlare proprio di questo.
«Noi italiani abbiamo inventato grandi cose, faccio esempi banali: la pizza e il caffé espresso. Ma Starbucks e Pizza Hut sono americane, con migliaia di negozi nel mondo. Negli ultimi trent’anni, il nostro sistema economico ha lasciato ad altri una serie di occasioni. In Italia abbiamo un’alta concentrazione di persone che creano. C’è però un problema di fondo: la grande capacità inventiva non è accompagnata dalla cultura di gestione del patrimonio».
Come si gestisce un’idea?
«Si parte dalla creazione dal nulla o dalla rielaborazione di qualcosa già esistente ma è destinato a diventare qualcosa di nuovo. Quindi si passa alla fase due, al brevetto: assolutamente da proteggere. E qui nascono i problemi. Me ne rendo conto quando parlo a convegni per piccoli o medi imprenditori, la questione del brevetto è ancora un tabù.
In che senso?
«La gente è intimidita. Quanto costa? è la prima domanda. Dopo aver creato il brevetto, il tuo prodotto difficilmente funziona perché essendo nuovo ha bisogno di sperimentazione. Se non c’è sperimentazione poi si brucia. Spesso l’inventore non ha laboratori e centri di ricerca a disposizione, ma ci si può appoggiare alle università. Qui sta il nodo della questione: trasformare un’idea empirica in un progetto».
È incluso nella lista Forbes. Che vantaggi composta finire lì?
«Mi invitano ai convegni Forbes, compreso quello di punta che l’anno scorso fu a Hong Kong e quest’anno sarà a Singapore. Sono occasioni per incontrare persone, scambiare opinioni e idee. La cosa imbarazzante è che ci sono sempre pochissimi italiani. Anche a Davos siamo pochi. Invece sarebbe così importante fare sistema, incontrarsi».
A proposito di Forbes e di miliardari del trevigiano. Frequenta la famiglia Benetton?
«Ero molto amico di Gilberto e di Riccardo. Mia moglie è console del Principato di Montecarlo a Venezia, e quando veniva il Principe Alberto stava sempre da noi. Mi manca molto Gilberto».
È stato vicino alla famiglia durante i giorni di fuoco del crollo del ponte Morandi?
«Sì. Con Gilberto la stima era reciproca. I Benetton sono partiti prima di me. Hanno spianato la strada a tutti noi».
La sua è una bella storia di successo. Ma di cosa va particolarmente orgoglioso?
«Dell’aver trasformato un’idea originale in un brand noto globalmente».
Il presidente di un marchio che coniuga moda e tecnologia guida solo e rigorosamente auto elettriche.
«Sì, ho una Tesla. Un giorno l’ho provata per curiosità, poi mi sono reso conto che per il tragitto Treviso-Milano avevo speso un euro, a fronte di prestazioni dell’auto veramente eccellenti. Lì ho capito che il mondo sta cambiando, che queste innovazioni possono cambiarti la vita anche in termini di inquinamento e rumore. Pensiamo a una città come Milano senza rumore e inquinamento da automobili: vi potremmo vivere come in una foresta».
È Geox a rappresentare l’Italia nel campionato di Formula E. «Fa un certo effetto rappresentare il tricolore quando i nostri competitori sono i grandi marchi dell’automotive tedesca. Abbiamo preferito entrare facendo squadra con una ditta americana anziché limitarci a una sponsorizzazione».
Con quale obiettivo?
«Rendere confortevole la guida del pilota, come è accaduto collaborando con la F1. Siamo un brand mondiale chiamato a investire nel benessere, abbiamo sviluppato un concetto del clima applicabile sia alle tute che alle scarpe dei piloti, l’obiettivo è di eliminare il calore in eccesso».
Ricerche in collaborazione con università?
«Sì, soprattutto della Norvegia e della Baviera: istituti specializzati nello studio del movimento del calore umano. Da queste collaborazioni sono nati altri brevetti. Abbiamo pensato, per esempio, a come risolvere il problema della scarpa asciutta anche in giorni di pioggia. Abbiamo creato un prodotto diverso da quello che esiste sul mercato grazie alla tecnologia applicata alla moda italiana».
Come dicevamo all’inizio, lei viene da una famiglia di viticoltori. Qual è il suo vino prediletto?
«Sono molto curioso, quindi assaggio tanti vini. Trovo essenziale un buon abbinamento di vino e cibo. In generale, comunque, amo i vini non vecchi, a bassa gradazione così come vuole la cucina moderna».
Non cede al fascino dei vini di grande struttura.
«Li riservo alle serate speciali e a piatti saporiti. Ma come dicevo, ora si va nella direzione dei vini leggeri, più salati e meno pastosi, in linea con l’orientamento della cucina».