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 2019  giugno 25 Martedì calendario

Casa Verdi, nell’ospizio della musica

Bissy Roman ha 94 anni ma ne dimostra almeno dieci di meno. Piega perfetta, gioielli in abbondanza, si presenta al concerto del pomeriggio nel salone principale come se stesse per partecipare alla prima della Scala. Lei, regista e insegnante di opera a New York, ha appoggiato la borsetta leopardata sul deambulatore e procede con la fierezza della prima donna che fu.
Benvenuti alla casa Verdi, dove la musica dà un gusto più morbido alla vecchiaia. Dove le mani degli anziani tremano ma mai quando si appoggiano sulla tastiera di un pianoforte. E anche quando l’età rende confusi i ricordi, stai pur certo che qui nessuno dimenticherà mai la trama del Falstaff o dell’Aida.
Siamo in uno dei quartieri più eleganti di Milano. Qui nel 1902 viene aperta quella che lo stesso Giuseppe Verdi definisce «la sua opera più bella»: una casa per accogliere i musicisti (anziani e no). L’architetto che la progetta, Camillo Boito (fratello del musicista Arrigo), non le dà l’aspetto di una residenza assistenziale, ma di una raffinata villa con stucchi ai soffitti che assomiglia più a un albergo che a una casa di riposo. Anzi, guai a chiamarla così. «Per carità – tuonano gli artisti ospiti – non siamo mica così vecchi. Qui si suona e si canta tutti i giorni, altroché». Vero. La musica – che sia un violino, un’arpa o il gorgheggio di qualche soprano – arriva da ogni stanza.
«Verdi – ci racconta Ada Mauri, elegante ex insegnante di pianoforte al conservatorio di Piacenza e musicista alla Scala – non desiderava costruire un ricovero per i malati ma una dimora lussuosa per tutti gli artisti che tanto danno al loro pubblico ma che, dopo gli applausi, vengono spesso dimenticati». Il compositore decide di aprire una «casa» quando un giorno, per caso, incontra un musicista con cui ha lavorato tra i barboni rifugiati sotto i ponti dei Navigli. Un pugno allo stomaco che gli fa capire quanto possa essere difficile vivere di musica. Quanto la gloria e i palcoscenici lascino spazio a solitudine, sperperi e vere e proprie rovine economiche.
NON CHIAMATELA RSA
Il compositore dà vita a quello che tutt’ora è un modello unico in tutto il mondo: la residenza oggi ospita 60 artisti e in quelle stanze sono transitati compositori, ballerini, cantanti. Per chi non è più autosufficiente ci sono 25 posti letto, assistenza medica, fisioterapia, riabilitazione e tutto ciò che ruota attorno all’assistenza. Compreso il personale che spinge le carrozzine fino alla sala del pianoforte per seguire la terapia più efficace di tutte: la musica.
L’attività si sostiene inizialmente sull’eredità lasciata da Verdi e sugli introiti generati dai diritti d’autore sulle sue opere. «Oggi la Fondazione Verdi beneficia di 150mila euro all’anno di contributi pubblici che tuttavia – spiega la direttrice Danila Ferretti – non bastano a coprire nemmeno il 10% delle spese. Per chi non è autosufficiente abbiamo un contributo dalla Ats e in generale gli ospiti contribuiscono con una retta che non supera mai il 70-80% del loro reddito. Ci reggiamo grazie alle donazioni, circa 300mila euro l’anno, e le eredità che qualcuno ci lascia». Il modello casa Verdi potrebbe presto avere un «gemello». Cioè una casa (di riposo) per gli chef a fine carriera. L’idea è firmata Gualtiero Marchesi che, qualche anno prima della morte, va in visita all’istituto dei musicisti per chiedere un posto per la moglie e per capire come funziona un modello tanto anomalo rispetto alle tradizionali residenze per anziani.
LE MERENDE MUSICALI
«Qui non ci si annoia mai – aggiunge Ada Mauri – e impariamo molto l’uno dall’altro. Io e Catherine Feller, l’attrice inglese, ci stiamo confrontando molto sulla musica in Italia e in Inghilterra ai tempi di Shakespeare. E capita anche che ci mettiamo a commentare Sanremo. Le ultime canzoni, ad esempio. Sono un recitar cantando, giocano sul contrattempo. Insomma, hanno scoperto l’acqua calda». Al pomeriggio c’è sempre qualcosa da fare. Ci sono i laboratori di pittura, di bigiotteria, di fiori di carta che vengono venduti nei mercatini di Natale per raccogliere fondi a favore delle adozioni a distanza. C’è il cineforum, i quiz musicali ideati dagli ospiti. E poi ci sono le sacrosante merende musicali, quelle con i dolci preparati dal baritono Armando Ariostini che si diletta in due ricette: il ciambellone Verdi, con le pere, e il ciambellone Stoppani, a base di frutta e dedicato a Giuseppina, la moglie del compositore-benefattore, sepolta con lui nella cripta interna all’istituto. Gli artisti si cimentano anche in piccoli concerti (ovviamente il calendario è fittissimo e le proposte non mancano mai) e realizzano un giornalino, su cui pubblicano storie, ricordi e cruciverba a tema musicale inventati da loro. «Spesso ci troviamo a improvvisare qualche nota – racconta Raimondo Campisi, pianista jazz, cappellino da velista in testa -. Uno comincia a suonare, gli altri lo seguono. Siamo un po’ tutti matti noi artisti, qui molti di noi si sono ritrovati dopo aver lavorato anni prima assieme». Quest’estate il musicista terrà una master class di pianoforte per un gruppo di allievi giapponesi dell’università di Kobe e solitamente, appena può, coinvolge i ragazzi nei suoi concerti in salone.
«NIPOTINI» D’ARTE
I giovani, appunto. Autentica linfa vitale dell’istituto-collegio. Sono 16 gli allievi del Conservatorio e gli studenti di musica ospitati della casa. I ragazzi mangiano con gli ospiti senior, si fanno consigliare, cercano conforto prima di qualche esame o di un provino, si confidano. E assorbono quelle verità senza tempo che solo chi ha vissuto sulle scene da sempre può dispensare. «Marika è stata chiamata alla Scala per una parte nel Die Tote Stadt di Korngold – raccontano tutti nei corridoi con l’orgoglio dei nonni -. E Marco ha l’esame di composizione. È molto bravo, quanto la sua ragazza che studia canto».
Arriva Sidorela, 21 anni. Non fa in tempo a varcare la soglia che viene subito coinvolta in una suonatina di tardo pomeriggio. «Perché no?» sorride entrando in una delle sale prove. In pochi secondi le note arrivano all’orecchio di altre ospiti di passaggio. Che ovviamente si fermano, mai sazie di musica, e si appoggiano al pianoforte. Dina Morena, da dietro il suo bel ventaglio colorato, ci racconta di quando interpretava Caterina Valente. «Eh, ma lei sicuramente non l’ha nemmeno sentita nominare. Magari la sua mamma. Poi cantavo anche le sue canzoni». E indica l’amica, Marisa Terzi, mille limoni disegnati sulla giacca estiva e un sorriso fresco che da solo ha qualcosa di poetico. «Piacere. Lei si chiederà cosa ho fatto. Sono l’autrice di Se tu non fossi qui di Mina. Presente?». Eh, presente sì. E non solo di quella canzone. Marisa Terzi per Mina ha anche scritto You are my love e da poco, dopo anni di silenzio, ha accettato di incidere l’album Canzoni perdute, con i suoi inediti anni Settanta e quel tocco di nostalgia che, se è filtrato dalla musica, fa solo bene al cuore.