La Stampa, 25 giugno 2019
Il concerto d’addio di Morricone non era un addio: ha nuovi progetti
Tra pochi mesi Ennio Morricone compirà novantun anni, ma è pieno di energia ed entusiasmo per quella che ha definito la sua ultima serie di concerti. Il termine tournée gli piace poco, forse gli sembra troppo giovanilistico, e quando ci sentiamo sta controllando meticolosamente la scaletta dei brani dosandone l’alternanza secondo un criterio che ha sempre dato un risultato trionfale. Ancora adesso la passione per la musica è divorante, contagiosa, come il senso di ricerca continua: il suo è in primo luogo un modo per interpretare il mistero dell’esistenza e di celebrarne la bellezza, anche nei momenti più difficili. Chi lo frequenta ne conosce il carattere schivo e solitario che in apparenza può apparire persino brusco, ma dietro l’apparenza c’è una personalità attenta, cauta e capace di slanci di grandissima generosità. «Stiamo partendo», mi dice con calore, e gli chiedo quale sia il sentimento prevalente prima dell’ultima serie di concerti. «Felicità e un po’ di apprensione, come sempre. Ma chi ha detto che questa è l’ultima serie di concerti?».
Veramente lo hai detto tu.
«Lo avevo detto anche l’anno scorso, e anche l’anno prima. Io so che a settembre inizierò un nuovo, grande progetto, poi si vedrà».
Hai scritto centinaia di colonne sonore, molta musica che definisci assoluta, tantissime canzoni e hai vinto due Oscar, dei quali uno alla carriera, poi il Polar, corrispondente del Nobel, per non parlare dei David e Nastri D’Argento: quale bilancio trai?
«Il primo termine che mi viene in mente è gratitudine, ma mi riconosco l’abnegazione di una persona che è partita da zero e ha studiato tutta la vita. Quei risultati vengono dall’impegno quotidiano, durissimo, e da tanta gavetta».
Come definiresti l’ispirazione?
«Io credo che non esista. Esiste invece il duro lavoro».
E il talento?
«Quello esiste e fa la differenza».
Parlami della gavetta.
«In questi ultimi tempi ho cercato di darmi alcune risposte facendo un auto-esame. Ho iniziato facendo arrangiamenti per orchestrine in locali di secondo ordine. Poi ho arrangiato canzoni, e ho lavorato nelle riviste: spettacolini che ora nobilitiamo definendolo teatro. Ho lavorato quindi con la Rai, e poi la Rca. Tutte queste esperienze mi hanno insegnato a manipolare la musica con libertà, e ho visto un progresso costante, mentre continuavo a ricercare. Quando sono stato chiamato dal cinema ero pronto, e questo è stato un privilegio».
Cosa cerchi ancora nella musica?
«Qualcosa che abbia una compiutezza assoluta, e che forse è il segno di qualcosa più grande. Ho appena scritto un concerto per pianoforte e archi e ho altre idee che sto mettendo sulla carta».
Se dovessi chiederti il brano di cui sei maggiormente orgoglioso?
«La colonna sonora di Mission, in particolare “Come in cielo così in terra”».
E la canzone?
«Se telefonando».
Come è nata?
«La melodia mi è venuta in mente mentre facevo la fila alla posta».
Ma non è ispirazione, quella?
«È solo il primo spunto. Da quel momento inizia il lavoro e nasce davvero la musica».
È vero che in alcune tue melodie sono nascosti dei messaggi?
«Nel Clan dei Siciliani le quattro note che si sentono ripetutamente sono Si bemolle, La Naturale, Do Naturale e Si naturale. Se le metti in fila secondo la notazione tedesca viene fuori BACH: volevo omaggiare in questo modo un gigante della musica. Ho iniziato a comporre seguendo questa suggestione quasi per scherzo, poi ho scoperto che suonando il nome Bach la melodia funzionava».
Hai una preferenza anche per quanto riguarda la musica assoluta?
«I concerti per coro e orchestra, ma, ripeto, sto ancora scrivendo».
Qual è il regista da cui hai imparato maggiormente?
«È una domanda alla quale mi rifiuto di rispondere, ma ho preferito rifiutare il lavoro ogni volta che ho capito che non mi sarei trovato bene. Viceversa con molti registi sono diventato amico, come Sergio Leone, Elio Petri, Gillo Pontecorvo e Giuseppe Tornatore. Ma la lista sarebbe lunga, e non riguarda solo gli italiani».
Hai notato una diversità nel modo di lavorare rispetto a maestri internazionali come Malick, Polanski, Tarantino e De Palma?
«Ovviamente ogni personalità è diversa, e alcuni sono più meticolosi di altri, ma nella sostanza non c’è differenza: vogliono che la musica assecondi le esigenze del loro film».
Quali sono i più grandi rimpianti?
«L’aver detto no a Kubrick per Arancia Meccanica: mi ero impegnato con Sergio Leone per Giù la testa, film di cui intendiamoci, sono molto fiero. Per un motivo analogo non ho potuto scrivere la musica della Sottile linea rossa: a Malick devo la mia prima candidatura agli Oscar con I Giorni del cielo».
Il fatto che la musica da cinema sia al servizio delle immagini non la rende un’arte ancillare e minore?
«Io preferisco dire che ogni musica scritta per il cinema è in qualche modo sprecata. A differenza delle immagini, noi la musica non la vediamo, e finiamo per ascoltarla insieme alle voci, ai rumori, e spesso per venti secondi».
Esistono film di cui ti vergogni?
«Non farò i nomi dei registi perché erano persone gentili, ma i film sono Comandamenti per un gangster e Sai cosa faceva Stalin alle donne?».
Sei un grande giocatore di scacchi: che relazione vedi con la musica?
«Non definirmi grande che facciamo ridere il mondo, ma è vero che sono molto appassionato. Ed è indubbio il parallelo tra la composizione armonica e le combinazioni matematiche: non è un caso che molti bravi musicisti giocano bene a scacchi, come a esempio Tajmanov. Se mi permetti di aggiungere una cosa, son molto orgoglioso di aver fatto patta con Boris Spasski, ricordando una mossa che aveva usato Fischer».
Cosa pensi del fatto che tuo figlio Andrea sia anche lui un musicista?
«All’inizio ho tentato di dissuaderlo, ma poi ho capito che era un ottimo compositore, basti pensare al tema di Nuovo Cinema Paradiso. Come direttore poi è più bravo di me. Ma viviamo in un momento non facile per i compositori, c’è meno tempo per tutto.