la Repubblica, 25 giugno 2019
Parla la comandante della Sea Watch
Ha deciso, comandante? «Io voglio entrare. Entro nelle acque italiane e li porto in salvo a Lampedusa. Sto aspettando cosa dirà la Corte europea dei diritti dell’uomo. Poi non avrò altra scelta che sbarcarli lì». La accuseranno di favorire l’immigrazione clandestina e forse di associazione per delinquere. «Lo so». La multeranno e la nave Sea-Watch 3 sarà confiscata. «So anche questo. Ma io sono responsabile delle 42 persone che ho recuperato in mare e che non ce la fanno più. Quanti altri soprusi devono sopportare? La loro vita viene prima di qualsiasi gioco politico o incriminazione. Non bisognava arrivare a questo punto». Ha paura? «E chi non l’avrebbe, al posto mio?». Quando leggerete quest’intervista, realizzata ieri pomeriggio, la capitana tedesca Carola Rackete (31 anni) potrebbe aver già oltrepassato il Rubicone delle acque territoriali, una linea invisibile distante dodici miglia nautiche dalle coste italiane lungo cui il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha eretto il suo Decreto sicurezza bis. Potrebbe essere già a terra a spiegare alla polizia le sue ragioni. Oppure sarà ancora là fuori, quindici miglia a sudest di Lampedusa, a disegnare una rotta schizofrenica che va avanti da tredici giorni. Con le spalle appesantite da una scelta che dentro di sé ha già preso ma che, non riguardando solo lei, tarda a mettere in atto. Qual è la situazione a bordo? «I migranti sono disperati. Qualcuno minaccia lo sciopero della fame, altri dicono di volersi buttare in mare o tagliarsi la pelle. Non ce la fanno più, si sentono in prigione. L’Italia mi costringe a tenerli ammassati sul ponte, con appena tre metri quadrati di spazio a testa». Avete anche minorenni? «Tre ragazzi di 11, 16 e 17 anni. Non stanno male, ma in Libia hanno subito abusi. Il 14 giugno ho fatto richiesta al Tribunale dei minorenni di Palermo perché prendesse in carico il loro caso. Non mi ha risposto nessuno». Comunicate con il Centro di coordinamento soccorsi di Roma? «Invio almeno dieci mail al giorno alle diverse autorità competenti, in Italia, in Olanda, a Malta. Allego anche il report con le condizioni sanitarie dei migranti. Da Roma mi rispondono “non siamo responsabili”. Allora chiedo il place of safety, il porto di sbarco, e mi ripetono “non siamo responsabili”. Girano tutte le mie mail al ministero dell’Interno, dicono di avere le mani legate. È chiaro che il Centro è stato esautorato, è Matteo Salvini che decide e provoca lo stallo». Secondo lui dovreste andare in Olanda, il vostro Paese di bandiera. «È ridicolo, bisognerebbe circumnavigare l’Europa! Oltretutto anche l’Olanda non collabora. “Non è colpa nostra se in Libia c’è la guerra”, ci dicono. “Non è colpa nostra se l’Africa è povera”.Siamo circondati dall’indifferenza dei governi nazionali». Perché non andate a Malta? «Ha negato l’autorizzazione». La Tunisia? «Non ha una normativa che tuteli i rifugiati. La nave Maridive 601, che aveva salvato 75 migranti, l’hanno fatta stare 18 giorni al largo di Zarzis senza farla attraccare. Ma di cosa stiamo parlando? Lampedusa è il porto sicuro più vicino. Il Centro di Roma sostiene di non essere responsabile, poi però ha acconsentito a far sbarcare i migranti che stavano male. Ora gli altri rimasti a bordo ci chiedono quanto dolore bisogna provare per poter scendere a terra». È pronta ad assumersi tutte le responsabilità? «Sì, e lo ero fin dall’inizio di questa storia. Sarei entrata subito a Lampedusa, perché la situazione politica mi sembrava così compromessa da non lasciare speranze. Però non sono sola, la mia scelta avrà conseguenze legali anche sul capo missione, sul proprietario della nave e sulle persone di Sea-Watch che a terra lavorano con noi. Rischiano di essere accusati di reati gravissimi. Non è facile, sono preoccupata per loro». Come riesce a rimanere calma? «Non ho tempo per perdermi d’animo. Passo le giornate a fare ciò che un capitano di nave non dovrebbe fare: cercare un porto di sbarco. È compito delle autorità statali darcelo. Nessun comandante dovrebbe subire la pressione che sto subendo io. La sera ci ritroviamo a cena con i 22 dell’equipaggio e parliamo, condividiamo sensazioni, cerchiamo di tenere il morale alto. Ma è dura, la notte non ci dormo». Cosa spera, Carola? «Che i giudici italiani, alla fine, riconoscano che non siamo scafisti né una minaccia per la sicurezza nazionale dell’Italia, come invece sostiene Salvini». Se potesse parlare con il ministro cosa gli direbbe? «Gli direi che l’importanza della vita umana è un valore ereditato dai grandi pensatori greci e romani, e non dovrebbe farci sopra i suoi giochi politici». Si era mai trovata in una situazione così complicata? «Mai, nemmeno quando ero sulle navi rompighiaccio in mezzo al mare artico». Ma come è finita nel Mediterraneo a salvare i migranti? «La mia vita è stata facile, ho potuto frequentare tre università, a 23 anni mi sono laureata. Sono bianca, tedesca, nata in un Paese ricco e con il passaporto giusto. Quando me ne sono resa conto, ho sentito un obbligo morale di aiutare chi non aveva le mie stesse opportunità». Quando l’ha capito? «Durante il mio primo viaggio all’estero, in Sud America. Ho conosciuto culture e popoli diversi dal nostro, e quando sei lì, a meno di non essere cieco, non puoi non accorgerti dell’ingiustizia e della diseguaglianza che ci circonda. Dovevo fare qualcosa per chi non ha voce e non ha forza».