la Repubblica, 25 giugno 2019
Biografia di Stefan Babis
PRAGA – Papà Stefan Babis era diplomatico della Cecoslovacchia occupata e brutalmente “normalizzata” nel 1968 dai russi. Così il giovane Andrej, nato il 2 settembre 1954 a Bratislava, oggi capitale slovacca, ebbe la fortuna di studiare in Svizzera. Poi si iscrisse al Partito comunista in mano al Kgb, con tutti i riformatori dubcekiani espulsi. E buon sangue, ambizioso, non mente: per la famigerata StB (Statní Tajna Bezpecnost, la Gestapo rossa del regime fantoccio con cui Breznev e le sue marionette Husak e Bílak epurarono tre quarti del partito comunista), si propose nel 1980 come uomo di fiducia, poi dal 1982 al 1985 come informatore attivo non ufficiale: negli anni in cui il leader del dissenso Vaclav Havel soffriva il carcere duro, Dubcek era agli arresti domiciliari e filosofi e seguaci della Primavera di Praga venivano torturati a morte. Poi si fece le ossa nel commercio estero del regime. Ecco chi è il premier, l’uomo forte ceco, tra i più ricchi del Paese, che oggi tutti chiamano “Babisconi” – gioco di parole con Silvio Berlusconi, per le sue “somiglianze” con l’ex premier italiano – contro cui domenica sono scesi in piazza a Praga tanti cittadini quanti mai da dopo la Rivoluzione di Velluto che nel novembre 1989 caduto il Muro di Berlino spazzò via il comunismo. «Io non mollo, non discuto con dimostranti che spargono solo falsità su di me, non sono un politico corrotto come gli altri ma un imprenditore che crea lavoro», ha detto ieri Babis prima di partire in missione all’estero. A casa ha le spalle coperte: l’anziano presidente russofilo Milos Zeman gli garantisce la maggioranza, la mozione di sfiducia oggi in Parlamento non ha speranze. Ma ormai il re è nudo, la società civile tornata in piazza come 30 anni fa non ha paura. «Bures, vattene», gridano i giovani figli dell’89. Bures era il suo nome in codice nella StB. E lo prendono in giro perché, come il comunista Gustav Husak imposto da Mosca dopo l’arresto di Dubcek, parla male ceco con accento slovacco e male slovacco con accento ceco. «Il poliglotta negativo», dice esplodendo in risate una comitiva allegra di ragazze allo Hybernska campus, ritrovo della gioventù impegnata. Oppure: «I soldi rubati alla Ue restituiscili tu». Già, soldi. Parliamo di due milioni di euro di fondi Ue che sarebbero stati usati per Agrofert, il gigante agroalimentare di Babisconi, e per il suo resort “Nido delle cicogne”. Troppe indagini pendono adesso sul suo capo: la polizia ne chiede l’incriminazione, la magistratura indaga e spinta dalla società civile risvegliatasi nella splendida estate praghese non si lascia imbavagliare. La Olaf, l’agenzia europea anticorruzione, chiede di restituire quei fondi. Due volte sposato, quattro figli, Andrej junior fu costretto da papà a fare da prestanome per affari dubbi, poi venne rapito da alcuni uomini e portato in Crimea, così la magistratura ceca non potè interrogarlo. «È alle strette ma sa difendersi», nota il giovane politologo Radek Buben, uno dei leader del movimento. «Copiando Orbán si proclama difensore della nazione dai diktat di Bruxelles». Ha i media in mano: i massimi quotidiani Mlada Fronta Dnes e Lidové Noviny, la tv pubblica, siti, radio private, rotocalchi. La società civile lo rifiuta, ma Babisconi non è ancora morto.