Corriere della Sera, 25 giugno 2019
La fuga del boss della cocaina
Milano Comanda sempre lui. I quattro detenuti in fuga dalle 23.30 di domenica sono un assassino, un falsario, un ladro e il boss della cocaina Rocco Morabito, l’unico che ha parlato quando sul ballatoio del quinto piano di un condominio hanno incontrato una signora 70enne, Rosina Des Armas: «Facci entrare in casa e tira fuori i soldi».
Il palazzo dell’anziana è nella strada San José di Montevideo, la capitale dell’Uruguay, e confina – è fisicamente attaccato – con il carcere dove era detenuto Morabito, 53 anni dei quali 23 trascorsi in latitanza prima dell’arresto nel 2017, proprio in Uruguay. La scorsa settimana il narcotrafficante ha simulato un malore per farsi trasferire nell’infermeria della prigione, reparto posizionato vicino al tetto (facilmente accessibile soprattutto se, come l’altroieri, le porte vengono lasciate aperte) e la domenica sera sguarnito di sorveglianza. Un piano preparato. Forse insieme ai tre compagni di fuga, ugualmente ricoverati in infermeria. Il gruppo ha raggiunto prima il tetto del carcere e poi quello del condominio adiacente, e attraverso una scala si è fermato sul ballatoio della signora Des Armas, intercettata da Carolina Delisa, cronista del giornale e l Observador, alla quale l’anziana ha riportato frasi di Morabito: «Ovvio che fossero detenuti, indossavano un camice con il marchio della prigione... Inutile fingere e quell’uomo mi ha detto: “Stia calma, non urli e non dia l’allarme. Lo sa per quale motivo scappo? Per stare con mia figlia, gravemente malata”». Non è vero, ma Morabito ha ottenuto l’immobilismo di Rosina e la concessione di quanto aveva in borsa: 3 mila pesos, ovvero 75 euro.
Pochi soldi e da spartire in quattro: improbabile che Morabito, discendente di Giuseppe Tiradritto, boss di una delle più potenti ‘ndrine della Locride, capo dei traffici di droga a Milano e successivamente nel mondo per tonnellate di stupefacenti, abbia improvvisato la fuga e sia adesso un vagabondo bisognoso anche delle monetine. Fonti del Corriere rivelano che a causa di cavilli burocratici si stava profilando il ritorno in libertà del boss, il quale temeva che un clamore mediatico avrebbe ostacolato e forse bloccato l’iter, e allora ha scelto d’«anticipare» l’uscita di prigione.
Il ministro dell’Interno Matteo Salvini ha detto che «è sconcertante e grave che un criminale come Morabito sia riuscito a fuggire da una galera dell’Uruguay mentre era in attesa di essere estradato». Eppure bisogna cristallizzare due dati: per ottenere l’estradizione con nazioni sudamericane possono trascorrere anche due anni; raramente sono operazioni-lampo e non c’è da stupirsi. Dopodiché, Morabito «aspettava» la pronuncia definitiva della Corte suprema di giustizia alla quale si erano rivolti i suoi legali, quando nel marzo 2018 un tribunale penale d’Appello aveva confermato l’autorizzazione al rimpatrio. Ma sarà missione del Governo accertare se l’azione bilaterale – le mosse di Montevideo, d’accordo, ma anche quelle della nostra diplomazia – sia stata insistita ed efficace oppure abbia pagato dazio a manovre di «melina». Il ministro degli Esteri, Enzo Moavero Milanesi, pretende spiegazioni dall’Uruguay. Ma potrebbe essere ormai tardi.
A meno di sorprese, e l’uomo ha abituato a sconfitte i migliori cacciatori di latitanti, e al netto di quell’arresto del 2017, il boss è un criminale strutturato anche lontano dall’Italia. Da qui inizia la caccia, alla quale parteciperanno anche poliziotti e finanzieri: la cerchia di riferimento durante la latitanza, chi l’ha mantenuto e gli ha trovato i nascondigli, le coperture politiche, e arrivando al periodo più recente, le persone che hanno pagato l’avvocato, i compagni di cella del boss, chi l’ha incontrato ai colloqui in prigione.
Carriera criminale
Prima della cattura,
avvenuta nel 2017, era considerato tra i cinque latitanti più pericolosi
Troppo sbrigativo attaccare la complicità delle guardie, suggerisce un investigatore: bisogna provare a esaminare i profili degli altri evasi, tutti sudamericani, non di alto livello criminale, forse complici per convenienza e forse ora pedine «sacrificabili». Anche se a monte c’è sempre il profilo di Morabito, condannato a trent’anni per narcotraffico e associazione mafiosa, golden boy nella Milano degli anni Novanta, al volante di Lancia Thema, cliente dei locali di piazza Diaz e corso Vittorio Emanuele, del bar Cubino, della pasticceria Gattullo: milanese più di molti milanesi.
Il suo soprannome è ‘u Tamunga (da ragazzo girava sul fuoristrada Dkw Munga). A lungo inserito nell’elenco dei latitanti più pericolosi al mondo, da domenica è tornato il solito Morabito: un fantasma. Camminando sui tetti e mentendo alle anziane.