il Fatto Quotidiano, 24 giugno 2019
Creme? Sostanze pericolose
“Le aziende chimiche hanno disatteso la legge per anni, vendendo sostanze che potrebbero causare cancro, disturbi neurologici e altri gravi problemi di salute. Come consumatori siamo tenuti all’oscuro, senza sapere se i prodotti che usiamo tutti i giorni sono sicuri oppure no”. Manuel Fernandez è il Chemicals policy officer di Bund, una grande organizzazione ambientalista tedesca che fa parte dell’European Environmental Bureau (Eeb), il Network europeo per l’ambiente. Questa agguerrita associazione ha portato avanti negli ultimi mesi una dura battaglia contro la European Chemicals Agency (Echa), l’organo che controlla se le aziende che producono o utilizzano sostanze chimiche – tra cui produttori di cosmetici, cibo, medicine, plastica – rispettino la regolamentazione europea (Reach), che stabilisce che siano i produttori o gli importatori a raccogliere informazioni sulle proprietà delle sostanze chimiche (vendute o importate oltre le 1.000 tonnellate l’anno) e a registrarle in una banca dati presso l’Echa, dopo aver completato i test di sicurezza. In realtà, la stessa Echa, lo scorso novembre, per ammissione del suo direttore Bjorn Hansen, aveva dichiarato che più di due terzi dei prodotti registrati – e quindi dichiarati utilizzabili – infrangerebbero aspetti importanti del regolamento Reach sulla sicurezza.
Il risultato nasce dall’analisi di 2.000 dei 94.000 dossier (o fascicoli) sottomessi all’Echa per 22.257 sostanze prodotte e 14.714 aziende coinvolte. L’Echa ne ha analizzati 700 trovando appunto che il 70% violava le norme di registrazione, valutazione e autorizzazione delle sostanze chimiche. Dopo la clamorosa ammissione dell’Echa, numerose Ong ambientaliste hanno fatto pressione – parlando di un “dieselgate dell’industria chimica” – per sapere i nomi delle sostanze e delle aziende coinvolte, ma Echa si è rifiutata di pubblicarli.
A quel punto, l’associazione Bund ha richiesto accesso agli atti di un’indagine sul livello di conformità dei dossier sulle sostanze prodotti dalle aziende fino al 2014, condotta sia dalla German Environmental Agency (Uba) che dal German Federal Institute for Risk Assessment (BfR). Già nel 2015 Uba e BfR, infatti, avevano presentato alcuni risultati preliminari della loro indagine su 1.814 fascicoli, mostrando che il 58% delle sostanze non corrispondevano ai criteri richiesti. Nel 2018 il risultato finale del progetto Reach Compliance: Data Availability in Reach Registration: 32% dei fascicoli non erano conformi ai requisiti legali, mentre il 37% era definito come “complesso”, cioè da indagare ulteriormente. Bund ha richiesto al BfR i nomi delle aziende e sempre nel 2018 il BfR ha svelato le 941 sostanze chimiche non conformi, mentre i nomi delle aziende Bund li ha ricavati trovando nei database di Echa le 6.773 aziende dietro le 941 sostanze non conformi al momento dell’inchiesta. Secondo l’Eeb, “l’esposizione giornaliera a un mix di sostanze tossiche aumenta rischi di cancro, problemi riproduttivi, disordini metabolici come diabete e obesità e danni allo sviluppo neurologico. Più di 300 sostanze chimiche industriali – ha scritto Eeb – sono state trovate negli umani, mentre non erano presenti nei loro nonni. E i neonati nascono già con tracce delle sostanze”.
Poiché Echa si rifiutava di pubblicare la natura degli aggiornamenti dei fascicoli e per evitare dunque il rischio di pubblicare sostanze i cui dati potevano essere stati aggiornati dopo il 2014 (ma attenzione, “aggiornare non vuol dire rendere conforme, si aggiorna anche cambiando indirizzo dell’azienda”, precisa il Bund), la Ong tedesca ha deciso di pubblicare solo le 42 sostanze sicuramente non a norma perché facenti parte dei fascicoli non aggiornati. Tra queste ultime, ad esempio, c’è il dibutilftalato, un plastificante utilizzato in pavimenti, mobili, giocattoli, tende, calzature, cuoio, prodotti di carta e apparecchiature elettroniche e che potrebbe causare danni ai feti e danneggiare la fertilità; l’acetato di metile, usato in adesivi e sigillanti, cosmetici e prodotti per la cura personale e la pulizia: causa infiammazioni severe agli occhi e può provocare sopore e stordimenti; infine il tricloroetilene, che può causare cancro, severe infiammazione agli occhi e alla pelle ed è sospettato di provocare difetti genetici.
C’è poi l’elenco delle aziende che utilizzerebbero le 42 sostanze a rischio: ben 692. La maggior parte in Germania (169), poi in Gran Bretagna (80), in Francia (57), in Italia (49) e Spagna (42). Quando ai nomi delle aziende, “cinque delle prime 10 società chimiche globali di vendita sono implicate”, ha scritto Eeb in una nota (documenti che il fatto ha visionato): “Basf, Dow Chemical, Sabic, Ineos, ExxonMobil. E poi 3M, Henkel, Sigma-Aldrich, Solvay, Du Pont, Clariant, Thermo Fisher. Alcune aziende sono responsabili di controversie passate, inclusi Bayer (glifosato), Dow Chemical (Bhopal) e Chemours (GenX). Altre aziende note includono Michelin, BP e Endesa”. Ci sono poi “il gigante dei cosmetici L’Oréal, la ditta di alimenti e bevande Dsm e il produttore di medicinali Merck“. Vista la portata del fenomeno, Bund ha chiesto che “Echa pubblichi immediatamente nel suo database i nomi delle sostanze chimiche con informazioni carenti e i nomi delle aziende”.
Non solo: l’organizzazione tedesca chiede che Echa incrementi l’efficienza dei controlli. “Bund ha rivelato solo la punta dell’iceberg: ora è l’Echa a doverci dire il resto. Reach è la più ambiziosa regolamentazione chimica del mondo, ma conta poco se non viene presa sul serio“, ha detto Tatiana Santos dell’Eeb. Ai governi nazionali, le organizzazioni chiedono di imporre sanzioni più severe nei confronti delle aziende che violano i principi di sicurezza. “Come al solito, il problema non è la legge, ma i controlli, che funzionano a macchia di leopardo”, commenta Gianfranco Amendola, ex magistrato e docente di Diritto dell’Ambiente all’Università La Sapienza di Roma. “L’Echa deve avviare un controllo a tappeto su tutti i prodotti chimici registrati per coprire questo gap informativo”, ha detto Mauro Albrizio, Direttore dell’ufficio europeo di Legambiente e membro del board del Eeb. Anche perché, conclude Amendola, “bisognerebbe far valere il principio di precauzione: quando c’è incertezza sul fatto che una sostanza possa essere pericolosa la si deve considerare tale”.
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