la Repubblica, 24 giugno 2019
In futuro produremo meno beni e più dati
Il mondo nuovo che aspetta l’umanità nei prossimi secoli assomiglia a quello che abbiamo conosciuto tanto poco quanto l’età industriale assomiglia all’epoca feudale. È per questo che fa tanta paura e si fa tanta fatica a interpretarlo. Considero uno specifico dovere della filosofia proporne una interpretazione, e attenuare la paura. L’unica cosa certa è che il mondo nuovo si caratterizzerà per un potenziamento tecnico della memoria umana, proprio come il mondo industriale si era caratterizzato per un potenziamento meccanico della forza umana. Tutto sarà registrato, di tutto si potrà fare archivio, sapere, statistica, documento, e l’umanità, nell’epoca dei Big Data, sarà una “documanità”, una umanità nella quale la produzione di documenti (come produzione di valore e di senso) prenderà il posto della umanità produttrice di beni che abbiamo conosciuto nel suo parossismo industriale, e che sembrava, ma sembrava soltanto, definire l’essenza dell’umano condannato a faticare e ad alienarsi dalla maledizione biblica in avanti.
Sembra una cosa bellissima, ma le paure sono tante, anche perché siamo portati, come è naturale, a leggere il presente con gli occhiali del passato, e a interpretare il mondo nuovo con i parametri del vecchio mondo dei campi e delle officine. Siamo preoccupati per i lavori che se ne vanno, e a ragione siamo scettici sul fatto che torneranno, e l’ansia ci impedisce di vedere che la nostra mobilitazione sul web produce una ricchezza che può tranquillamente finanziare il welfare del XXI secolo attraverso la tassazione delle plusvalenze delle piattaforme. Ma questo è tutto tranne che chiaro agli attori sociali. Alcuni sono nostalgici del comunismo ma non vedono che la nostra è l’epoca più vicina al comunismo sognato da Marx di quanto non siano state tutte le epoche che l’hanno preceduta, perché – malgrado le apparenze – ci ha allontanato più di ogni altra dalla fatica e dalla alienazione. Altri pensano che dalla alienazione non ci si libera perché la tecnica stessa è alienazione e non pensano che la tecnica è al fianco dell’uomo e lo rivela per quello che è, nel bene come nel male.
Per questo oggi è necessario dare un nome e una forma concettuale agli oggetti del nostro tempo che cresceranno nel mondo a venire, e definire i contorni della rivoluzione documediale, riconoscere la trasformazione tecnologica che nel giro degli ultimi decenni ha generato una nuova forma di capitale, radicalmente diverso dal capitale industriale che l’aveva preceduto. Un capitale caratterizzato da una automazione che progressivamente interesserà tutta la sfera della produzione, il capitale documediale fa sì che – attraverso il web – la produzione umana sia produzione di documenti (i cosiddetti Big Data), con un passaggio dal lavoro (come fatica e alienazione) alla mobilitazione (come produzione di valore attraverso l’attività sul web e il consumo di beni).
Del pari, è necessario riconoscere il risultato sociale complessivo della rivoluzione, che non è, come spesso si sostiene, una sconfitta della sinistra e del comunismo, ma la realizzazione del comunismo attraverso il capitalismo, come era del resto negli auspici di Marx. Il fatto che questa realizzazione (asintotica, ovviamente, essendo il comunismo un ideale) non sia percepita dipende da un fattore cruciale, e cioè che sussiste un nuovo plusvalore che Marx non poteva prevedere, il plusvalore documediale, ossia la differenza tra il valore dei dati (individuali, reali, e correlazionabili con milioni di altri dati) che gli utenti cedono alle piattaforme e quello dei dati che le piattaforme danno agli utenti (generali, talora fake, e non correlabili con altri dati).
La socializzazione di questo plusvalore costituisce lo scopo di un welfare digitale che deve presentarsi come l’obiettivo di una sinistra del XXI secolo, proprio come l’obiettivo (realizzato) della sinistra del XX secolo è stato la ridistribuzione del capitale industriale. Ma per farlo occorre analizzare i modi di formazione del plusvalore documediale e le nuove forme di mobilitazione come produzione di valore che dovranno prendere il posto del lavoro come fatica e alienazione. L’intuizione di fondo che sta alla base del welfare del XXI secolo consiste nel considerare il consumo come l’unico elemento non automatizzabile. Un elemento che da sempre costituisce l’obiettivo e il senso della produzione e dell’automazione, ma che ora è produttivo di valore (di dati) nel momento stesso in cui si esercita, diventando così valore. Si tratterà dunque di considerare consumo e produzione come i due volti della stessa realtà, proprio come l’intuizione essenziale di Keynes era stata di considerare come i due volti di una stessa realtà risparmio e investimento.
Siamo consumatori per essenza, e, sempre per essenza, siamo capitalizzatori (abbiamo bisogno di accumulare perché non possiamo permetterci di restare senza energia, sarebbe la morte, e non semplicemente la stasi, come per i meccanismi). D’altra parte, è proprio l’urgenza del consumo che dà senso all’esigenza della produzione, ed è su questa base che, a mio avviso, si può motivare la tesi secondo cui produzione e consumo sono semplicemente i due volti di una medesima realtà. Per svolgere questa dialettica, si tratta di riconcettualizzare il capitale come una lavagna universale in cui sono annotate tutte le azioni umane, e i cui effetti si manifestano a più livelli: come capitalizzazione dell’energia nella tecnologia, come capitalizzazione del sapere nella epistemologia (senza la capitalizzazione della conoscenza non c’è progresso del sapere), e come capitalizzazione degli atti sociali nella enorme lavagna del web (che non va cancellata, ma socializzata).
Ma perché qualcosa sia capitalizzato e consumato occorre che qualcosa ci sia. Una analitica della verità non può scansare la domanda «perché c’è qualcosa piuttosto che il nulla?», che traduco in: «che cosa può la registrazione?». Che cos’è questa proprietà fondamentale del mondo che ora è esplosa nel web? Come memoria implicita o memoria dichiarativa, come memoria esterna e tecnologica, poi come dispositivo dialettico di passaggio dall’essere al non essere, e infine come fondamento spaziotemporale dell’universo, la registrazione costituisce la vera forza che getta un ponte tra la natura e lo spirito, e costituisce la struttura fondamentale non solo della soggettività o del capitale, ma dell’universo. Una volta che avremo compreso questo, ci renderemo conto del perché una crescita della registrazione abbia cambiato così potentemente il mondo in cui viviamo (e questo cambiamento non è niente rispetto al mondo in cui vivranno i nostri eredi). E saremo in grado, con il sapere e non con la paura, di pensare politiche di giustizia e di welfare. E di guardare all’automazione del lavoro che ci aspetta non come un salto nel buio, ma come la possibilità, estesa questa volta all’intera umanità, di quell’otium creativo che nell’antichità l’automazione perfetta dei molti (gli schiavi) permetteva ai pochissimi.