la Repubblica, 24 giugno 2019
Perché nessuno vuole il salrio minimo
Il nostro mercato del lavoro permette paghe di due euro all’ora e tollera la presenza di situazioni di vero e proprio sfruttamento dei lavoratori. La povertà tra chi fa lavori manuali è al 12 per cento. Abbiamo perciò disperatamente bisogno di un salario minimo. Grave colpa di tutti – partiti e sindacati in primis – aver ignorato il problema così a lungo. Oggi sulla carta in Parlamento c’è un’ampia maggioranza favorevole a introdurre un salario minimo orario, ma a giudicare da ciò che propongono i disegni di legge depositati alla Camera e al Senato, in realtà nessuno lo vuole. Non lo vogliono i pentastellati che, pur avendo chiesto e ottenuto di inserire il salario minimo come primo punto della parte lavoro nel programma di governo e averne fatto una propria bandiera, hanno presentato un disegno di legge in Parlamento che non ha nulla a che vedere con il salario minimo. Vuole estendere per legge la copertura dei contratti collettivi nazionali, con le loro rigide griglie salariali differenziate per settore e qualifica. Queste tutelano solo i lavoratori maggiormente rappresentati e si dimenticano di chi è sfruttato nelle campagne e nelle piccole imprese. Non vogliono il salario minimo neanche i Fratelli d’Italia che propongono di introdurlo solo per i «lavoratori non coperti dalla contrattazione collettiva», un insieme vuoto dato che tutti i lavoratori dipendenti sono sulla carta coperti dalla contrattazione collettiva.
Meno ipocrita in questo caso l’atteggiamento della Lega che dice esplicitamente di non volere un salario minimo forse anche perché una parte del suo elettorato di riferimento vive dello sfruttamento della manodopera, soprattutto di quella immigrata. La formulazione ambigua di FdI è mutuata dal disegno di legge delega sul Jobs Act, rimasto lettera morta su questo aspetto. Anche dai banchi dell’opposizione, il Pd mostra di concepire il salario minimo come un’estensione dei contratti collettivi. Lo propone a un livello molto alto (9 euro netti contro i 9 euro lordi del M5s) e permette deroghe al ribasso stabilite dalla contrattazione collettiva. Quindi non introduce un salario minimo, ma una base contrattuale derogabile a seconda del settore (si parla di esenzioni per colf e badanti o dipendenti di artigiani).
Retribuzione contrattuale e salario minimo sono due cose molto diverse. La prima muove tutta la struttura delle retribuzioni. Il salario minimo si occupa solo di impedire che i salari possano scendere al di sotto di una soglia prestabilita e, quindi, non interferisce affatto con la contrattazione al di sopra di questo livello.
Il salario minimo è un istituto che esiste in molti Paesi, tra cui i nostri maggiori partner commerciali. Negli Stati Uniti esiste dal 1938; in Francia dal 1950; nel Regno Unito dal 1998; in Germania è stato introdotto più di recente, nel 2015. È una paga oraria minima posta a tutela di tutti i lavoratori. Serve esclusivamente a proteggere le categorie più a rischio di emarginazione e sfruttamento per le quali l’alternativa sarebbero salari ancora più bassi e ancora meno tutele nel sommerso. Un uso diverso del salario minimo, che interferisca in modo sostanziale con il funzionamento del mercato del lavoro di altre categorie già ben rappresentate, avrebbe effetti deleteri sull’occupazione. Il fatto è che se stabilito a livelli bassi (nei Paesi europei è tra il 40 e il 50% delle retribuzioni medie), il salario minimo può aumentare sia le retribuzioni effettive che l’occupazione perché stimola l’offerta di lavoro e impedisce ai datori di lavoro di pagare i lavoratori meno della loro produttività. Se, invece, viene stabilito a livelli più alti distrugge molti posti di lavoro. Quanti? Stime sull’Italia ci dicono che l’elasticità della domanda di lavoro al salario fissato dalla contrattazione è molto elevata: attorno a – 1. Questo significa che per un 10% di aumento del salario, l’occupazione si riduce del 10 per cento. E chi perde il lavoro in questi casi sono i giovani, le donne e i lavoratori precari, le fasce meno protette.
Bene quindi che la politica smetta di sparare numeri a caso. Se si vuole davvero istituire un salario minimo si affidi, come nel Regno Unito e in Germania, a una commissione sui bassi salari, composta anche di esperti scelti dalle parti sociali, il compito di valutare i potenziali effetti di diversi livelli del salario minimo, lasciando poi al Parlamento e al Governo il compito di decidere. Dato che povertà fra chi lavora, lavoro nero e disoccupazione sono problemi soprattutto nel Mezzogiorno, bisognerebbe fissare il livello del salario minimo con riferimento alla realtà meridionale, lasciando poi alle Regioni che volessero istituire livelli più alti del salario minimo la possibilità di farlo. Infine sarebbe utile accompagnare l’introduzione del salario minimo con misure che riducano il prelievo fiscale e contributivo sui lavori pagati ai salari minimi e al di sopra di questi (ad esempio, in Francia gli sgravi si estendono fino ai lavori pagati 3,5 volte il salario minimo). È un modo per ridurre il costo del lavoro e aumentare i salari netti al tempo stesso, incentivando l’emersione del sommerso. Rimedierebbe almeno in parte alla follia di avere introdotto un reddito di cittadinanza che al Sud vale di più dei redditi di quasi la metà di coloro che lavorano. Nell’introdurre il salario minimo bisognerebbe anche rivedere il reddito di cittadinanza in modo tale da incoraggiare maggiormente la ricerca di lavoro, con o senza navigator.