Corriere della Sera, 24 giugno 2019
Il primo romanzo di Purgatori
Probabilmente Andrea Purgatori ha deciso di scrivere Quattro piccole ostriche, il suo primo romanzo (HarperCollins) dopo tanti articoli, scoop (Ustica), sceneggiature e trasmissioni tv, per una botta di nostalgia. Nostalgia di John le Carré e di Len Deighton, di George Smiley e di Harry Palmer, di Chiamata per il morto e di La pratica Ipcress. Nostalgia del romanzo di spionaggio classico e romantico insieme, quel genere letterario che cadde trent’anni fa, il 9 novembre 1989, insieme al Muro di Berlino, alla Cortina di Ferro, all’impero sovietico. Quel giorno il pianeta perse l’equilibrio che lo teneva in piedi dalla fine della Seconda guerra mondiale, lo squilibrato equilibrio del Terrore (ma ne esistono d’altro tipo?). Quel giorno i Russi e gli Americani smisero di essere come nella solenne e spaventata canzone di Sting e di Prokofiev (con lo scorato augurio del ritornello: «I hope the Russians love their children too»). E, last but not least, in quel giorno d’autunno i romanzi di spionaggio diventarono di colpo vecchi come i poemi cavallereschi, presero a somigliare a sopravvivenze folkloristiche come i western (non quelli di Sergio Leone).
Andrea Purgatori appartiene a una generazione nata e cresciuta nella guerra fredda, educata a considerare il Checkpoint Charlie tra Berlino est e Berlino ovest le nuove Colonne d’Ercole, il confine tra due visioni del mondo. Una generazione consapevole che se Omero avesse dovuto scrivere un sequel dell’Iliade ambientato nel Novecento, avrebbe scelto come location Berlino e non più Troia. E in quella Troia novecentesca ritorna, trent’anni dopo essere scappato (proprio nella notte della caduta del Muro), il protagonista di Quattro piccole ostriche, l’ex ufficiale della Stasi Markus Graf (ma nel libro ha molti nomi come il suo mestiere impone, così come pretende vite doppie se non triple). Trent’anni prima Markus ha tradito. Ha prosciugato la cassa con i fondi neri della polizia segreta della Repubblica Democratica e si è rifatto una vita che è l’esatto contrario della precedente. Quando lo incontriamo la prima volta nel romanzo è avvolto in un accappatoio bianco e si prepara a fare sauna e massaggio, come ogni mattina alle 7.45, in un lussuoso Grand Hotel svizzero nei Grigioni mentre la musica ambient imperversa. Sembra un personaggio di Paolo Sorrentino e, infatti l’albergo in cui risiede è il super esclusivo Waldhaus Flims Mountain dove il regista girò il film The Youth con Harvey Keitel e Michael Caine (l’attore del film che fu tratto dalla Pratica Ipcress!) Ma sono le ultime ore di relax per Markus. Il passato (che, a volte, è il destino) bussa alla sua porta. C’è da pagare un conto in sospeso da trent’anni.
Il Circo, «il mondo grigio e impalpabile» degli agenti segreti, ha riaperto i battenti. Un’attempata spia (che soffriva, tra l’altro, di diabete, nemmeno per gli 007 c’è più religione) è stata ammazzata e Markus si è ricordato della regola più importante del suo mestiere: «Tre persone possono mantenere un segreto, se due sono morte». Il gioco ricomincia. La lettera a Markus l’ha spedita una vecchia amica (collega, amante): Greta Pfeiffer, bellissimi nome e cognome per un bellissimo personaggio. E bellissima, ai tempi, anche di persona, tanto che estorceva confessioni ai nemici per vie sessuali. Greta non ha tradito, lei rispetta ancora le consegne, mantiene il segreto. È come il soldato giapponese dimenticato sull’isola che continua da solo a combattere a guerra fredda finita. Greta vuole portare a termine la sua missione, anche se il suo mondo non esiste più e la sua stessa vita è terminale. La missione (segretissima) si chiama Progetto Walrus, in onore della canzone dei Beatles I’m the Walrus («Io sono il tricheco» dell’album Magical Mystery Tour). È la canzone preferita da Greta, la canzone della sua storia d’amore (tormentata e mai sincronizzata come accadeva agli amanti di Ludovico Ariosto) con Markus. Così quest’ultimo viene risucchiato nella spirale dei pedinamenti, degli appostamenti, degli agguati, dei depistaggi. Ma soprattutto viene risucchiato dal suo passato come un paziente del dottor Freud: «E il ritorno a Berlino, che solo tre giorni prima avrebbe evitato con ogni mezzo, si stava rivelando più utile di una lunga seduta di analisi».
La scena si popola di vecchi e nuovi personaggi. C’è uno psichiatra comunista che sapeva troppe cose e che finisce impiccato (ma anche sparato). Ci sono quattro strani killer involontari e innocenti chiamati burocraticamente: Uno, Due, Tre e Quattro. Erano stati programmati per uccidere e mai per amare, ma uno di loro ha scoperto l’amore (le spy story sono le ultime storie romantiche possibili). C’è Nina Barbaro, calabrese di origini familiari parandranghetiste, ex tossica (in stile ragazzi dello zoo di Berlino) che si vendeva al peggior offerente, poi diventata formidabile commissario della polizia tedesca ai tempi della Merkel, che sorseggia caffè in una tazza con l’immagine di Uma Thurman in Kill Bill. E c’è Sokrat, killer al servizio dell’ex (ex?) Kgb, che nella Russia putiniana ed oligarca si fa pagare i suoi servigi, feticisticamente, in mocassini di un famoso artigiano fiorentino. Sokrat vive nel quartiere in cui Bulgakov ambientò il più fatato dei romanzi russi, Il Maestro e Margherita. Lui il libro non l’ha letto, ma per farsi bello con le modelle (un’altra sua passione) ha studiato su Wikipedia. E ora è capace, davanti a una bottiglia di champagne millesimato, rollando qualche canna, di stendere la modella di turno citando a memoria la frase in cui nel suo capolavoro Bulgakov descrive il colpo di fulmine tra il Maestro e Margherita: «L’amore ci si parò dinanzi come un assassino sbuca fuori in un vicolo, quasi uscisse dalla terra, e ci colpì subito entrambi».
Purgatori racconta le sue spie con munificenza di riferimenti letterari, cinematografici. Ma anche alberghieri, perché l’avventura ama il lusso. Accanto alla location sorrentiniana sui Grigioni, c’è quella all’Adlon di Berlino. E c’è anche il Bogota, corrispettivo berlinese del Chelsea Hotel di New York, «residenza maledetta di scrittori alcolizzati e rockstar suicide. Un tempio di dissoluzione, impregnato di eroina e acidi. In continua decadenza ma con un’anima in costante ascesa». L’indirizzo preferito da Rupert Everett, René Burri e Helmut Newton, gente che non cercava il lusso, «ma il brivido della diversità».
Questa dei grandi alberghi potrebbe sembrare una digressione da inviato speciale (e a Purgatori sarebbe concessa), invece è un elemento sostanziale: ve la immaginate una spia al tempo di Airbnb? Il mondo si è ristretto, lo scenario si è rimpicciolito. La guerra fredda aveva la sua grandiosità, la sua teatralità, alloggiava nelle suite.
L’ultima citazione è ancora per il tricheco, non più quello dei Beatles, ma quello del poemetto omonimo di Lewis Carroll, il genio di Alice nel paese delle meraviglie. In quei versi apparentemente allegri, Purgatori ha trovato il titolo e nascosto il nucleo tragico del romanzo, quello della conclusione finale: forse solo alle spie tra tutti gli umani è «negata l’esistenza di un’anima».
Andrea Purgatori, uno dei colleghi numeri uno (non sono tanti), si è preso e lasciato più volte con il mestiere di inviato come in una storia d’amore tormentata. Ha fatto anche altro. Ha recitato in alcuni film di Carlo Verdone. Considerata la sua inquietudine esistenziale e professionale, gli avevo profetizzato una carriera d’attore. Ha il fisico del ruolo, la faccia giusta, come è evidente anche quando appare in tv nella sua trasmissione Atlantide. Ma ora, dopo questo suo primo bellissimo, malinconico romanzo, affrontato con il passo narrativo e la capacità di suggestione dei maestri anglosassoni del genere, penso che il suo destino sarà diverso. Gli toccherà essere il John le Carré italiano. Un ruolo che era rimasto scoperto. Resta da decidere quale attore potrebbe interpretare meglio Markus che fa la sauna alle 7.45 del mattino sullo sfondo dei ghiacciai svizzeri e, un momento dopo, legge con una ruga di terrore sulla fronte la lettera che lo richiama a Berlino trent’anni dopo. Ci vorrebbe la faccia di un Lino Ventura, di un Bruno Ganz. O di un Andrea Purgatori.