Questo sito utilizza cookies tecnici (propri e di terze parti) come anche cookie di profilazione (di terze parti) sia per proprie necessità funzionali, sia per inviarti messaggi pubblicitari in linea con tue preferenze. Per saperne di più o per negare il consenso all'uso dei cookie di profilazione clicca qui. Scorrendo questa pagina, cliccando su un link o proseguendo la navigazione in altra maniera, acconsenti all'uso dei cookie Ok, accetto

 2019  giugno 23 Domenica calendario

Intervista a Cesare Cavalleri

Capelli candidi, e l’anima di più ancora, elegantissimo nelle nuance delle pochette e nelle sfumature della scrittura, 83 anni, nato a Treviglio, cresciuto professionalmente a Verona e da mezzo secolo a Milano – terre esigenti e dure di cattolicesimo contadino, famigliare, conservatore – Cesare Cavalleri, scrittore e critico letterario, numerario dell’Opus Dei, dal 1965 è direttore delle Edizioni Ares e – record di durata per una testata italiana – della rivista Studi cattolici («fino a qualche tempo fa la direzione più longeva del giornalismo era quella di Andrea Spada all’Eco di Bergamo, 51 anni... Da un paio d’anni in effetti, è la mia»).
Alle spalle ha una vita di letture, una magnifica vetrata del suo studio che dà sul Parco delle Basiliche a Milano («ora si chiamano Giardini Giovanni Paolo II...») e un cartello che dice molto di lui e del lavoro dell’editore: «Se davvero volete aiutarmi, vogliate passare i vostri consigli agli editori concorrenti»). Davanti a sé ha invece una parete con bigliettini e fotografie dei «suoi» pontefici e dei grandi scrittori incontrati (Buzzati, Eliot, Quasimodo...), una parete di scaffali con i libri dedicati (Spadolini, Pampaloni, Bonura...) e una deadline – per quanto riguarda la direzione – ancora di lungo respiro.
«Diciamo 107 anni, l’età a cui se ne è andato Gillo Dorfles».
L’ha conosciuto?
«Abbastanza bene. A 105 anni, una sera, finita la presentazione di un libro a Palazzo Sormani, mi guarda e mi dice: Ma hai visto che ore sono? Devo scappare. Ho un altro appuntamento.... Persona straordinaria, curiosa, attivissima...».
Be’, anche lei. È il motore della casa editrice Ares, che pubblica quaranta titoli l’anno. Scrive per Avvenire dal primo numero, nel ’68. E dirige Studi cattolici. Quello di questo mese è il numero 700. Auguri.
«Sono arrivato qui quando usciva il numero 46, nel gennaio 1965. E non mi sono più mosso».
E la rivista?
«La rivista sì che si è mossa. Si è trasformata coi tempi, ma mantenendosi fedele allo spirito originale: offrire una chiave di lettura delle cose che accadono nel mondo e nella cultura. Tanto più necessaria oggi in un’epoca in cui, travolti da un eccesso di informazioni, si fatica a trovare un ordine, delle gerarchie».
E la chiave di lettura è quella cattolica.
«Certo. Da cattolici lavoriamo nell’ottica di una ricerca e di una passione cristianamente ispirate ai temi del Bello come rivelatore del Vero. In quanto all’aggettivo cattolico, be’... San Josemaría Escrivá diceva che era inutile rimarcare la radice confessionale della rivista. E in effetti quel cattolici dà più fastidio a noi che ai non cattolici, i quali anzi ci dicono: Fate bene. Così si sa subito chi siete!».
E chi siete?
«Un gruppo di persone, con sensibilità e interessi diversi, che condividono gli stessi valori e che offrono ai propri lettori riflessioni e critiche sui grandi temi dell’attualità, dalla bioetica all’arte, dall’economia alla televisione, coscienti del fatto che con una rivista non si può fare cultura, ma si può fare divulgazione: siamo il raccordo tra chi produce cultura – università, Fondazioni e Centri di ricerca – e un lettore che non è il grande pubblico generalista, ma è un leader di opinione: universitari, studiosi, professionisti che a loro volta spargono le nostre idee e i nostri principi su un terreno più largo, e più impervio».
Ha ancora un senso una rivista di carta?
«Certo. La Rete è imbattibile per consultare. Ma per leggere e studiare serve ancora la carta. Su questo aveva ragione Umberto Eco».
E sul resto?
«Eco è stato un grande semiologo. Ma un pessimo romanziere. I suoi libri da un punto di vista letterario non stanno in piedi».
Neppure Il nome della rosa?
«Soprattutto Il nome della rosa. Un libro anticattolico, nominalista – nel senso che si basa sui principi della filosofia di Ockham – e pericoloso ideologicamente, perché Eco con quel romanzo voleva mettere in crisi i valori della religione cattolica... Ma queste sono cose che ho scritto e riscritto nelle mie stroncature».
Lei per anni su Studi cattolici e su Avvenire ha seguito, recensito e criticato la letteratura e la poesia italiane. Che peso hanno oggi?
«La letteratura italiana nel mondo conta nulla. Dopo Italo Calvino e la sua generazione, che a me neppure piace particolarmente, non c’è stato più niente. Per altro la forma romanzo non è tipica della tradizione letteraria italiana, ma di quella anglosassone. I nostri – con l’eccezione del romanzo Il cavallo rosso di Eugenio Corti, che ho pubblicato nel 1983, e che è il nostro longseller – sono racconti che tiriamo a 200 e più pagine per poterli chiamare romanzi. Ma mancano del tutto l’intreccio romanzesco e la creatività che distingue un romanziere da un compilatore».
I nostri scrittori sono compilatori?
«Ma sì... Non se ne può più dei romanzi sull’infanzia, sulla famiglia, sulla madre, il racconto intimistico... Ma chi se ne frega. Stessa cosa con la poesia. Quando sento parlare di poesia narrativa mi irrigidisco. Questi non sono veri scrittori, non sono veri poeti».
Chi sono i veri poeti?
«Oggi in Italia Alessandro Rivali, che lavora con me. Lo è stato Raffaele Carrieri, un autore poco antologizzato ma importantissimo. Alessandro Spina, che è morto pochi anni fa. Pier Maria Pasinetti: veneziano doc e scrittore straordinario. E poi Patrizia Valduga, anche se non condivido i suoi entusiasmi erotici».
E i narratori? Quali sono i migliori? Tra poche settimane si assegna lo Strega. C’è qualcuno che salva negli ultimi venti-trent’anni?
«Uhmmmmm... Venti-trent’anni? Bisogna pensarci... Sì. Paolo Giordano con La solitudine dei numeri primi. Tra i romanzi più recenti è il migliore, per l’originalità del tema e per la scrittura».
E tra gli autori meno «giovani»?
«In assoluto, nel nostro secondo ’900, Dino Buzzati. Come uso della lingua, difficilmente superabile. E Cristina Campo: l’italiano più pulito che esista. Poi – passando dall’Italia all’America – io resto un fanatico di Gertrude Stein, la quale non usando la punteggiatura obbliga il lettore ad andare adagio nella lettura. Perché per leggere occorre fare fatica. Rilke nelle Lettere a un giovane poeta gli ricorda che dobbiamo attenerci al difficile. E infatti Milan Kundera quando un critico ha scritto che la sua prosa scorre si è innervosito: Macché scorrere, la mia prosa deve fermarsi e deve far fermare il lettore, non scorrere!, ha risposto».
Gertrude Stein, Kundera... Dal direttore di Studi cattolici uno si aspetterebbe citare nomi della grande letteratura cattolica...
«Ma la letteratura cattolica non esiste! Ma cosa vuol dire? Basta con questa storia della letteratura cattolica... Io considero più cattolico Ennio Flaiano – che ho conosciuto e che amo come autore – di Santucci o di Turoldo. Se un autore riesce a esprimere, o almeno ad avvicinarsi, alla Verità e alla Bellezza, è cattolico».
La Ares ha pubblicato un’antologia della poesia religiosa in cui infatti Turoldo non c’è...
«Va bene che in ogni orchestra ci dev’essere un trombone, ma lui è eccessivo... Voglio dire: non si deve parlare di autore o opera cattolica, ma piuttosto chiedersi se quell’autore o quell’opera hanno conseguito dei risultati dal punto di vista letterario. Quello che conta è il testo, non l’intenzione. Le etichette, i generi, le correnti: il romanzesco, la neoavanguardia... sono cose che servono ai professori, a me interessano le individualità. Altro che vecchi maestri o giovani promesse».
A lei interessano da sempre le nuove generazioni. Negli anni ’60 sulla rivista Fogli, che fondò a Verona, a proposito dei rapporti fra le generazioni «letterarie» ebbe una polemica con Montale.
«Montale, che all’epoca aveva 68 anni, di fatto diceva che la poesia era morta e che dopo di lui non c’erano allievi degni. Insomma lui e Carlo Bo erano dell’idea che dopo di loro non c’era nulla. Io, che avevo 25 anni, provai a sostenere il contrario».
Risultato?
«Oggi penso che avesse ragione lui, e io torto. Montale è uno di quei poeti, grandissimi, che chiudono un periodo, non che lo aprono. Scrittori come lui non ci sono più stati. E i giovani dopo di lui, dal punto di vista letterario, valgono poco. Come quelli di oggi».
E dal punto di vista non letterario?
«Stessa cosa. È vero che non bisogna generalizzare, ma la preparazione culturale dei nostri studenti è veramente scarsa, mediamente. E se devo dirlo, guardando i titoli dei temi della Maturità, anche quella dei professori che li hanno scelti».
Più colpa degli studenti o dei professori?
«Colpa della nostra scuola, che è la vera tragedia italiana. Se si vuole cambiare il Paese, prima di tutto bisogna riformare la scuola. Pagare il triplo gli insegnanti e selezionarli sulla base del merito. Dalla qualità degli insegnanti dipende la preparazione dei giovani. E dalla preparazione dei giovani dipende il nostro futuro. Da lì tutto il resto: a partire dalla politica. E magari anche la letteratura».